Oggi 8 maggio la chiesa celebra la Beata Vergine Maria di Pompei, la devozione alla Beata Vergine Maria mediante il Rosario risale al secolo XIII, quando venne fondato l’Ordine dei Frati Domenicani. Furono infatti i discepoli di san Domenico a diffondere la pratica del Rosario, ossia la recita di 150 Ave Maria raggruppate in tre serie di episodi della vita di Gesù e di Maria, dette “misteri”, con l’ausilio di uno strumento, la corona, formata da alcuni grani tenuti insieme da una corda o da una catenella. Quel modo di pregare, detto anche salterio mariano o Vangelo dei poveri, ebbe larga diffusione per la facilità con cui permetteva di meditare i misteri cristiani senza la necessità di leggere un testo. Ai quindici misteri tradizionali (cinque della Gioia o gaudiosi, cinque del Dolore o dolorosi, cinque della Gloria o gloriosi) san Giovanni Paolo II ha aggiunto, nel 2002, altri cinque misteri, detti della Luce. Alla protezione della Vergine del Santo Rosario fu attribuita la vittoria della flotta cristiana sui turchi musulmani, avvenuta a Lepanto nel 1571. A seguito di ciò papa san Pio V istituì dal 1572 la festa del Santo Rosario alla prima domenica di ottobre, dal 1913 spostata al 7 ottobre. La Madonna del Rosario ebbe nei secoli una vasta gamma di raffigurazioni artistiche, quadri, affreschi, statue. Fu proprio un quadro che, il 13 novembre 1875, fu trasportato su un carro di letame da Napoli a Valle di Pompei. Quest’icona fu data al beato Bartolo Longo, da suor Maria Concetta De Litala, del Convento del Rosariello a Porta Medina di Napoli; la religiosa l’aveva avuta in custodia da padre Alberto Radente, confessore del beato, che l’aveva comprata da un rigattiere. Bartolo Longo fu preso da sgomento quando la suora gli mostrò il dipinto, una tela corrosa dalle tarme e logorata dal tempo, mancante di pezzi di colore, con la Madonna in atteggiamento antistorico, cioè con la Vergine che porge la corona a santa Rosa da Lima, anziché a santa Caterina da Siena, come nella tradizione domenicana. Bartolo fu sul punto di declinare l’offerta, ma ritirò comunque il dono per l’insistenza della suora. Per trasportarla a Pompei, Bartolo Longo l’affidò al carrettiere Angelo Tortora che, avvoltala in un lenzuolo, l’appoggiò su di un carro di letame: era il 13 novembre 1875. Il quadro, però, necessitava di un restauro, fatto ad opera di Guglielmo Galella, un pittore riproduttore delle immagini dipinte negli Scavi dell’antica Pompei, e fu posto alla venerazione dei fedeli soltanto il 13 febbraio 1876. Nello stesso giorno, a Napoli, avvenne il primo miracolo per intercessione della Madonna di Pompei: la dodicenne Clorinda Lucarelli, giudicata inguaribile dall’illustre professor Antonio Cardarelli, guarì da terribili convulsioni epilettiche. In seguito, Bartolo Longo affidò l’icona al pittore napoletano Federico Maldarelli per un ulteriore restauro, chiedendogli anche di trasformare l’originaria santa Rosa da Lima in santa Caterina da Siena. Nel 1965, fu effettuato, al Pontificio Istituto dei Padri Benedettini Olivetani di Roma, un restauro altamente scientifico, durante il quale, sotto i colori sovrapposti nei precedenti interventi, furono scoperti i colori originali che svelarono la mano di un valente artista della scuola di Luca Giordano (XVII secolo). Il quadro della Beata Vergine del Santo Rosario di Pompei, sempre più oggetto di profonda venerazione in tutto il mondo, è custodito sull’altare maggiore del Santuario di Pompei.
8 maggio: san Vittore il Moro, nacque in Mauretania (Africa) nel III secolo. La sua vita e il suo martirio vengono descritti da sant’Ambrogio da Milano, in particolare nell’inno Victor, Nabor, Felix pii. Vittore subì il martirio sotto Massimiano Erculeo. Il crudele imperatore, venuto a Marsiglia dove il nostro martire militava come ufficiale, ordinò la più spietata guerra contro i cristiani, esponendoli alle pene più orribili. Temettero quei buoni fedeli alla nuova sciagura, quando si levò a loro conforto la voce di Vittore, che con l’esempio della sua invincibile costanza e con parole infuocate seppe animarli alla battaglia e alla vittoria. Vittore, esposto più degli altri al pericolo, fu arrestato e condotto ai tribunali. Intimatogli d’ubbidire ai comandi dell’imperatore, rispose che aveva sempre cercato di difendere principe ed impero, che aveva lavorato per coprirli di gloria, e che ogni giorno pregava per la salute dell’imperatore e la prosperità dei suoi stati; ma, che sopra il comando dell’imperatore stava il comando di Dio. Quindi, dopo aver accennato alla bassezza dell’adorazione idolatrica, parlò con accento ispirato della divinità di Gesù Cristo, della sublimità della morale evangelica, concludendo con un inno al premio eterno che ci aspetta. Gli si permise di parlare a lungo; ma alla fine gli fu proposto o il sacrificio agli dèi o la morte. Vittore rispose che in quanto a questo aveva già scelto, e che ora non desiderava altro che confermare con il sangue le verità che aveva esposte. Fu subito sospeso sull’eculeo (strumento di tortura a forma di cavalletto), e, dopo un’orribile tortura, gettato in una oscura prigione, dove nella notte fu visitato dagli angeli. I soldati di guardia, rapiti a quella scena, si buttarono ai piedi di Vittore, gli chiesero perdono e domandarono il battesimo, li istruì come meglio poté, poi li fece battezzare. Vittore sospeso di nuovo sull’eculeo, ebbe le ossa slogate, venne battuto con verghe di ferro e poi ricondotto in prigione. Dopo tre giorni, Massimiano lo fece di nuovo, condurre in tribunale, invitandolo nuovamente ad adorare i suoi idoli. Vittore aveva già dimostrato la falsità degli dèi e l’irragionevolezza dell’atto idolatrico che gli si chiede: va perciò, avvicinatosi ad una di quelle statue, con un calcio la rovesciò, mandandola in frantumi. L’imperatore irato, per la collera, ordinò che gli si tagliasse subito il piede, e lo si, gettasse fra le macine d’un mulino. Morì a Lodi Vecchio (Lodi) nel 303; patrono dei prigionieri ed esuli.
8 maggio: sant’Amato Ronconi di Saludecio, nacque a Sanctus Lauditius (odierna Saludecio, Rimini), attorno al 1226, da una ricca famiglia di agricoltori. Rimasto orfano in giovane età, fu accolto dal fratello maggiore Giacomo che sposò una ricca donna del paese, che portò in casa con sé una sorella, che voleva far sposare ad Amato. Ma questi già da adolescente aveva scelto di vivere “una santa e religiosa vita”, desiderando seguire il modello di vita proposto dal Vangelo si dedicò inizialmente all’accoglienza di poveri e pellegrini. San Francesco d’Assisi fu da sempre l’ispiratore della vita penitente e caritatevole di Amato, e come Francesco, Amato scelse di essere itinerante. Fece pellegrinaggio a Rimini per venerare le reliquie di san Gaudenzio e sul Monte Titano per visitare lo speco di san Marino. Si recò per quattro volte al celebre Santuario di San Giacomo di Compostela (Spagna), per venerare il corpo dell’apostolo. La veste che indossava era comune a quella di tutti i pellegrini. Una tonaca raccolta ai fianchi da una cintura di cuoio e una mantelletta che copriva le spalle; ai piedi scarpe robuste o anche solo rozzi sandali a protezione della pianta dei piedi; una bisaccia a tracolla dove erano raccolti gli oggetti personali di estrema necessità e il pane ricevuto in elemosina. Al collo portava una conchiglia che solo i pellegrini di ritorno da Santiago avevano il privilegio di portare, a testimonianza dei loro viaggi. Come san Benedetto da Norcia, Amato aveva scelto di essere agricoltore e aveva diviso la sua vita a metà tra l’itineranza e la vita dei campi. Visse con la sorella Clara nella casa sul Monte Orciaro che il fratello maggiore, Girolamo, gli aveva concesso come parte dell’eredità paterna. La sua casa, situata lungo la strada che da Rimini per Urbino porta a Roma, diventò un vero e proprio ospizio per i pellegrini (Ospedale di Santa Maria di Monte Orciale) che affluivano senza fine per sfamarsi e trovare ospitalità per riposare. Amato li accoglieva e li sfamava, e quando le provviste erano terminate sopraggiungeva il miracolo. Tra i miracoli tramandati dalla tradizione popolare il più famoso è quello delle rape: non c’era più nulla da poter offrire ai numerosi pellegrini, nell’orto c’erano solo delle rape piantate la mattina stessa. La sorella Clara riferì al fratello la mancanza di cibo e lui le rispose di andare nell’orto di raccogliere quello che il Signore avrebbe avuto il piacere di donare loro. Clara uscì e se ne tornò con un carico di rape, portate via da dove la mattina erano state seminate. Amato era seguito non solo dalla plebe, ma era cercato anche dai nobili, non solo per i prodigi che compiva, ma anche per ricevere consigli o per implorare la sua intercessione. Egli intraprendeva i lunghi pellegrinaggi per sperimentare i disagi della vera povertà e anche per smorzare l’onda di entusiasmo che lo circondava e che cresceva. Nel corso del suo quinto pellegrinaggio a Compostela un angelo gli ordinò di tornare a casa perché la sua vita si sarebbe conclusa entro breve. Amato fece ritorno immediato in Italia e nel celebre Monastero di San Giuliano in Rimini mise a conoscenza don Salvo, monaco benedettino, di questa sua rivelazione e lo pregò affinché l’Ospizio di Monte Orciano potesse rimanere per sempre metà di carità. Il 10 gennaio 1292 fratel Amato del Terz’Ordine di San Francesco, donò tutti i suoi beni per uso ed abitazione di monaci dell’Ordine di San Benedetto, compreso l’ospizio e la cappella che egli aveva costruito in onore della Natività di Maria Vergine. Morì l’8 maggio 1292, a 66 anni.