a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 17 ottobre la chiesa celebra sant’Osea profeta, in ebraico Hoseah, il Signore salva o il Signore viene in aiuto, è un personaggio dell’Antico Testamento, profeta ebreo, il primo dei dodici profeti minori. È l’autore dell’omonimo Libro dell’Antico Testamento. Visse nel regno d’Israele nell’VIII secolo a.C. Il profeta Osea apre nella Bibbia la serie cosiddetta dei Profeti minori. Il suo scritto, attraverso il suo dramma personale, vuole descrivere fondamentalmente la fedeltà di Dio verso gli uomini. Nell’omonimo libro il profeta narra, l’immensa fedeltà del Dio di Israele verso il suo popolo; tutto questo viene descritto anche attraverso il racconto della sua vicenda matrimoniale, contrassegnata dal tradimento e dall’abbandono della moglie Gomer, che era una prostituta, provocando nel profeta ferite e dolore, ma non la rassegnazione nel continuare ad amarla, fino ad arrivare a riaccettarla a casa e perdonarla. È evidente in tutto questo il parallelismo del rapporto tra Dio e il popolo di Israele. Nella sua predicazione, il profeta, inoltre, tuona contro la classe dirigente israelita, macchiata da scelte ingiuste e anche contro la classe sacerdotale che operando un’infedeltà religiosa nei confronti delle leggi di Dio, porterà nel popolo smarrimento, ingiustizie e violenze.
17 ottobre: sant’Ignazio d’Antiochia,nacque intorno all’anno 35 d.C. Crebbe in ambiente pagano; fu convertito in età adulta da san Giovanni evangelista. Ricevuta l’ordinazione sacerdotale, si distinse per le sue rare doti apostoliche, per cui gli Apostoli lo consacrarono, nel 69 d.C., vescovo della sede episcopale d’Antiochia. Fu pieno di Spirito Santo e la parola di lui era dai fedeli accolta quale oracolo del cielo. Fu un pastore zelante e padre di anime, ebbe molto da combattere contro la perfidia dei Giudei e il furore dei pagani; ma col digiuno, preghiera e la dottrina che possedeva, riuscì a dissipare le tenebre dell’errore e dell’eresia. Proprio nel periodo in cui fu vescovo iniziò ad essere oggetto delle persecuzioni dell’imperatore Traiano. Arrestato e condannato “ad bestias”, Ignazio fu condotto, in catene, con un lunghissimo e penoso viaggio, da Antiochia a Roma dove si allestivano feste in onore dell’Imperatore vittorioso nella Dacia e i martiri cristiani dovevano servire da spettacolo, nel circo, sbranati e divorati dalle belve. Nel corso del viaggio da Antiochia a Roma scrisse sette lettere (Efeso, Magnesia, Tralli, Romani, Filadelfia, Smirne e a Policarpo) alle chiese che incontrava sul suo cammino o vicino ad esso. Esse ci sono rimaste e sono una testimonianza unica della vita della chiesa dell’inizio del II secolo. Le sue lettere esprimono calde parole d’amore a Cristo e alla Chiesa. Appaiono per la prima volta le espressioni “Chiesa cattolica” e “cristianesimo”, che sono ritenuti vocaboli nuovi creati da lui. Le lettere di Ignazio sono una finestra aperta per conoscere le condizioni e la vita della chiesa del suo tempo. In particolare appare per la prima volta nelle sue lettere la concezione tripartita del ministero cristiano: vescovo, presbiteri, diaconi. Ignazio augurava una nuova organizzazione della chiesa cristiana in cui un solo vescovo presiedesse “al posto di Dio”. Questo vescovo avrebbe esercitato l’autorità su molti sacerdoti. Tali idee alimentarono nuove ondate di insegnamenti non scritturali. Giunto a Roma, nell’anno 107, il vescovo di Antiochia fu veramente sbranato dalle belve nell’anfiteatro Flavio (l’odierno Colosseo), per le quali il martire trovò espressioni di una insolita tenerezza e poesia: «Accarezzatele affinché siano la mia tomba e non facciano restare nulla del mio corpo, e i miei funerali non siano a carico di nessuno». Le sue ossa vennero raccolte da alcuni fedeli e ricondotte ad Antiochia, città dove aveva esercitato il ministero episcopale, dove furono sepolte nel cimitero della chiesa fuori della Porta di Dafne.
17 ottobre: san Rodolfo Gabrielli, nacque a Camporeggiano (Gubbio) nel 1034, nel castello di Monte Cavallo, da feudatari del luogo. La sua conversione religiosa avvenne a 17 anni, nel 1051, in occasione di una visita a Monte Cavallo di san Pier Damiani, allora priore dell’eremo di Fonte Avellana. Rodolfo, colpito dalla figura del grande mistico, decise, assieme alla madre vedova ed ai fratelli Pietro e Giovanni, di donargli il castello avito e gli altri possedimenti della famiglia. San Pier Damiani stabilì di costruire nella valle di Camporeggiano l’abbazia di San Bartolomeo, della quale fu primo abate Giovanni Gabrielli, mentre l’altro fratello Pietro, in seguito beatificato, nel 1057 entrò anch’egli come monaco a Fonte Avellana. Divenuto discepolo di san Pier Damiani a Fonte Avellana, Rodolfo vi studiò filosofia e teologia, eccellendo nella lingua latina. Decise quindi di prendere i voti e farsi benedettino. Divenuto sacerdote, intraprese una vita austera, fatta di preghiera e penitenza: usava torturarsi per indebolire le esuberanze giovanili, portava il cilicio e decise di astenersi dal mangiare carne, uova e formaggio, e di dormire su una tavola di legno senza coperte. Anche suo fratello Pietro con lui fece vita austera e fervorosa. Indebolito dalla macerazione, ideò per la propria cella un ingegnoso sistema di corde per sostenersi durante la recitazione dei salmi. Fu uno zelante attuatore della pratica dell’autoaccusa pubblica delle proprie colpe, in occasione della quale chiedeva la fustigazione ad opera di due confratelli. San Pier Damiani ebbe sempre un’alta stima del giovane monaco. Fu così che nel 1058, anche se non avesse ancora raggiunto l’età canonica, san Pier Damiani lo propose a papa Urbano II come proprio sostituto alla carica di vescovo di Gubbio, dalla quale egli stesso aveva ottenuto di essere esonerato. In occasione del Concilio Romano che si tenne a Roma, nell’aprile del 1059, il papa confermò la nomina, e per ubbidienza Rodolfo accettò la guida della diocesi, con “paziente disgusto” per la vita mondana che la carica comportava. Aveva solo 25 anni. Anche da vescovo, tuttavia, Rodolfo seppe mantenere la purezza della vocazione monastica e non rinunciò alle austerità della vita eremitica. Era infatti solito dedicare molto tempo alle pratiche penitenziali, e mangiava soltanto pane avanzato, ai servi, e acqua. Non usava calzature e, solo d’inverno, usava zoccoli di legno. Tutti gli anni radunava il Sinodo Diocesano, ma proibì ai sacerdoti di portargli doni e versare tasse. Era ottimo e convincente predicatore, dotto e zelante. Istruiva il clero e il popolo, visitava chiese e parrocchie, ma specialmente era sempre a contatto con i poveri e gli umili. I lunghi e severi digiuni lo indebolirono. Si ammalò gravemente. Fu curato forse dalla madre e si ristabilì, ma riprese la pratica della penitenza; una ricaduta lo portò alla morte “per consunzione”, cioè tubercolosi. Morì il 17 ottobre 1064.