Oggi 3 gennaio 2016 la chiesa celebra il Santissimo Nome di Gesù, nel Martirologio Romano, questa memoria è così definita: «Santissimo Nome di Gesù, il solo in cui, nei cieli, sulla terra e sotto terra, si pieghi ogni ginocchio a gloria della maestà divina». Queste parole sono tratte dalla Lettera ai Filippesi (2,9-11). Durante il Medioevo la devozione per il Nome di Gesù fu praticata in tutto il Senese, pochi decenni prima della predicazione di Bernardino da Siena, dai Gesuati (una fraternità laica dedita all’assistenza degli infermi, fondata dal beato Giovanni Colombini), i quali erano così detti per il loro frequente ripetere il nome di Gesù. L’elaborazione di una liturgia associata al Nome di Gesù è conseguenza della predicazione di san Bernardino da Siena, il quale focalizzò sul Nome di Gesù il suo sforzo di rinnovare la Chiesa, sottolineando la centralità della persona di Gesù Cristo. San Bernardino esponeva che, mentre la croce evocava la Passione di Cristo, il suo Nome rammentava ogni aspetto della sua vita, la povertà del presepio, la modesta bottega di falegname, la penitenza nel deserto, i miracoli della carità divina, la sofferenza sul Calvario, il trionfo della Resurrezione e dell’Ascensione. Così inventò uno stemma dai colori vivaci, con cui rappresentare il Nome di Gesù. Esso era costituito dal trigramma IHS, inscritto in un sole dorato con dodici raggi serpeggianti sopra uno scudo azzurro. Riprodotto su una tavoletta di legno, lo stemma era posto sull’altare durante la messa e i fedeli erano invitati a baciarlo al termine. Questo stratagemma dava concretezza alle parole di Cristo: «Se due o tre si riuniscono per invocare il mio nome, io sono presente in mezzo a loro» (Mt 18,20). Il simbolismo solare associato a Cristo, utilizzato da Bernardino, fu approvato da papa Martino V, nel 1450, a causa delle sue profonde radici nell’Antico Testamento e grazie all’appassionata difesa da parte di san Giovanni da Capestrano. La liturgia del Nome di Gesù si diffuse alla fine del XV secolo. Nel 1530, papa Clemente VII autorizzò l’Ordine Francescano a recitare l’Ufficio del Santissimo Nome di Gesù. Nel 1721, dietro richiesta di Carlo VI imperatore di Germania, papa Innocenzo XIII decretò che la festa del Santissimo Nome di Gesù fosse celebrata in tutta la chiesa, e la fissò allora alla seconda Domenica dopo l’Epifania.
3 gennaio: san Daniele di Padova, diacono ed evangelizzatore, convertì molti attirandosi l’odio dei pagani: incarcerato, subì il martirio, all’inizio del IV secolo sotto Diocleziano. Sull’esistenza e la figura di Daniele siamo informati, per la prima volta, da una leggenda agiografica che racconta il ritrovamento del corpo di Daniele e la sua traslazione nella chiesa cattedrale di Padova. Si narra dell’apparizione in sogno di un santo ad un uomo cieco, originario della Tuscia. Il giovane, bello d’aspetto e rivestito delle insegne di levita, rivelandosi come servo e martire per amore di Cristo, fece promessa di esaudire le quotidiane preghiere e digiuni del cieco restituendogli la luce sospirata degli occhi se avesse intrapreso un pellegrinaggio alla sua tomba, che rimaneva da secoli occultata a Padova nell’elegante atrio che collegava la basilica di Santa Giustina allo splendido sacello dov’era sepolto il corpo di san Prosdocimo. Fattosi accompagnare, il cieco toscano raggiunse Padova. Si recò nel piccolo atrio, come gli aveva indicato la visione notturna: qui si prostrò in lacrime e si fermò tanto a lungo in preghiera che venne colto da un dolce sopore. Nel sonno, una seconda apparizione del giovane levita lo informò dell’avvenuto miracolo: l’insistente preghiera era stata esaudita e le promesse mantenute; egli era guarito e poteva vederci. Informato dell’accaduto dall’abate del cenobio (Giovanni), il vescovo Odelrico assicurò subito il suo impegno nella ricognizione del tesoro nascosto là dove il cieco aveva riacquistato la luce degli occhi: le reliquie del santo dovevano trovarsi nelle viscere dell’area monasteriale. Il vescovo patavino, uomo di grandi qualità intellettuali per la conoscenza delle sette arti liberali ed eminente nella dottrina e nella vita religiosa, prima di iniziare la diligente ricerca, lasciò trascorrere l’imminente festa del Natale, durante la quale comunicò al popolo i fatti accaduti. È il vescovo in persona che, all’indomani, in compagnia di altri due vescovi di passaggio e di rappresentanti di clero e laici, mise mano allo scavo per disseppellire e riportare alla luce e alla venerazione il corpo del santo. Dopo aver tolte le lastre del pavimento e infranto lo strato di macerie che copriva il coperchio del sepolcro, i presenti si trovarono di fronte ad un’arca di marmo bianco sigillata con lamine di ferro e di piombo, che venne subito aperta. Vi riposavano i resti del santo, che giaceva supino e disteso sopra una tavola di legno e portava nel corpo, trapassato da lunghi chiodi nel capo, nel petto, nel ventre e in tutte le membra, i segni della crudeltà dei supplizi patiti. Si cercò invano la targhetta d’identificazione all’interno della cassa. Il titolo di riconoscimento, che identificava il nome e confermava il martirio, era invece inciso sul coperchio del sarcofago: «Hic corpus Danielis martiris ac levite quiescit». Le reliquie, tolte dall’arca, vennero solennemente trasportate, tra canti e incensi, e deposte sull’altare di Santa Giustina. Al popolo e al clero, accorsi numerosi a venerare il santo, parlò Odelrico comunicando l’intenzione di trasportare il corpo del martire Daniele nella cattedrale di Santa Maria in vista della sua consacrazione. Ottenutone il consenso, il presule accompagnato da altri due vescovi, dal clero e dal popolo, procedette alla traslazione, nonostante che alcuni laici si opponessero a tale decisione rivendicando per il luogo, dov’era stato scoperto, fece costruire un oratorio dedicato a San Daniele; è uno dei quattro Patroni di Padova con sant’Antonio, san Prosdocimo e santa Giustina.
3 gennaio: santa Genoveffa di Parigi, nacque a Nanterre (Francia) nel 422, da una famiglia di nobiltà gallo-romana. Ancora bambina ebbe la sorte d’incontrare san Germano d’Auxerre che andava con san Lupo di Troyes in Inghilterra a combattervi l’eresia pelagiana e a diffondervi la vita monastica; Geneviève doveva avere meno di 8 anni, dato che san Germano morì nel 430, ma da questo incontro nacque la sua vocazione. Durante una veglia Germano le pose una mano sulla testa ed ebbe la rivelazione della sua futura santità. Alla morte dei genitori, la nonna la portò a vivere a Parigi. Così forte e illuminante fu la chiamata, che verso i 16 anni, nell’età in cui le sue coetanee venivano date in moglie, Geneviève scelse di restare vergine e di darsi a vita ascetica. In questa veste, prima fece erigere la prima chiesa sul sepolcro di san Dionigi, il vescovo protomartire di Parigi. Nel 451 gli Unni, guidati da Attila, il “flagello di Dio”, dilagarono nella vallata della Senna e raggiunsero Troyes. I parigini, avvertiti dell’imminente pericolo, pensarono di mettersi in salvo con la fuga. Fiduciosa in Dio, soltanto Genoveffa, la donna forte, conservò la calma che le era abituale. Mentre san Lupo a Troyes e sant’Aignano a Orléans animavano i cittadini alla resistenza, a Parigi Genoveffa esortava le donne a unirsi a lei nelle veglie, nei digiuni e nelle preghiere. Gli uomini restarono increduli all’assicurazione che la città sarebbe sfuggita al massacro. Qualcuno pensò persino di lapidare o gettare nella Senna quella profetessa che essi ritenevano falsa. I parigini allora rinunciarono a prendere la fuga e Iddio premiò la fiducia che avevano riposto nella sua serva. Difatti Attila fu sconfitto dal generale romano Ezio, sui Campi Catalaunici (Champagne) e costretto a ripassare il Reno. Dopo che l’imperatore Valentiniano III, per gelosia, aveva fatto assassinare Ezio, la città di Parigi si trovò frequentemente in rapporti con Childerico I, re dei Franchi, principale artefice della pace di cui godeva il bacino della Loira. Durante il suo regno egli segui una politica d’intesa con i romani e, anche se pagano, ebbe dei riguardi per i cattolici. Nel 481 il figlio e successore di Childerico, Clodoveo I, su suggerimento di Geneviève, liberò i prigionieri e nel 496 si convertì al cristianesimo, ricevendo il battesimo da san Remigio nella cattedrale di Reims. Geneviève, a quell’epoca, viveva ritirata in un romitorio in collina, sul Mons Lucotitius (oggi Montagne Sainte Geneviève), là passava intere giornate e settimane in stretta solitudine e in penitenza, piangeva tanto da bagnare abbondantemente il pavimento della cella. Si era anche data la regola di non uscire dalla sua cella ogni anno dall’Epifania fino al Giovedì santo. Tutta la vita di Geneviève fu dedicata all’ascesi, alle penitenze e alle preghiere, digiunava perennemente, infatti mangiava solo due volte la settimana, il giovedì e la domenica, un pezzo di pane d’orzo e fave bollite. Mantenne questo regime alimentare, strettamente vegetariano, dall’età di 15 anni fino ai 50 quando, sfinita dai digiuni, si lasciò convincere dai sacerdoti ad aggiungere alla sua dieta latte e pesce. Geneviève morì nel suo eremo, a quasi 90 anni, il 3 gennaio 502; patrona di Parigi, forze armate, pastori, tappezzieri.