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Oggi 30 gennaio la chiesa celebra santa Giacinta Marescotti (al secolo Clarice Marescotti), nacque nel castello di Vignanello (Viterbo) il 16 marzo 1585, dal conte Marcantonio e da Ottavia Orsini, studiò, assieme alle sue due sorelle Ginevra e Ortensia, nel Convento di San Bernardino a Viterbo. Al termine degli studi Ginevra rimase in convento e prese il nome di suor Immacolata, dove morì in fama di santità, mentre Clarice e Ortensia furono introdotte nelle migliori case. Clarice era molto attratta dal giovane Paolo Capizucchi marchese di Poggio Catino, ma egli chiese la mano della sorella minore Ortensia. Clarice ne rimase sconvolta e dopo qualche settimana decise di raggiungere la sorella suor Immacolata a San Bernardino. Il 9 gennaio 1604 fece la vestizione, prendendo il nome di suor Giacinta. Fu una conversione soltanto esteriore: in convento suor Giacinta tenne atteggiamenti contrari alla disciplina della devozione. Anziché vivere in una cella, si fece arredare un intero appartamento nello stile delle sue stanze a Vignanello, ed era servita da due giovani novizie. Condusse vita mondana e licenziosa fino al 1615, quando, in seguito ad una malattia, entrò in una crisi spirituale: si ritrovò sola e gridò forte: «O Dio ti supplico, dai un senso alla mia vita, dammi la speranza, dammi la salvezza!». Era profondamente sincera e Dio la ascoltò. Si convertì e si diede ad esercizi di penitenza e di perfezione cristiana. Dedicò il resto della sua vita ad aiutare il prossimo. Dall’interno della clausura, muoveva le fila di una fitta rete di aiuti ai poveri di Viterbo, e aiutata da Francesco Pacini, un convertito di Giacinta, fece nascere una confraternita laicale dal nome della chiesa dove si riuniva, di ed era dedita alla cura degli infermi e di soccorsi ai poveri, di Santa Maria delle Rose o detta dei Sacconi. Dopo lunga malattia, Giacinta morì il 30 gennaio 1640.
30 gennaio: santa Martina di Roma, era una diaconessa, figlia di un nobile romano. Arrestata per la sua aperta professione di fede, venne condotta al tribunale dell’imperatore Alessandro Severo. Martina, fu trascinata davanti alla statua di Apollo, dove si fece il segno della croce e iniziò a pregare. La statua andò in frantumi e crollò il tempio, per un terremoto o per un fulmine mandato da Dio, uccidendo tutti i sacerdoti di Apollo e buona parte di quanti si trovano nel tempio in quel momento. Tutto ciò avrebbe dovuto indurre i suoi persecutori a riflettere, ma ancora più ostinati iniziarono a fustigare la giovane, ma Martina ne uscì illesa. Visto che la prima scelta era fallita fu colpita ripetutamente con il flagello uncinato e poi le vennero strappati pezzi di carne con delle tenaglie, ma anche qui non si ottennero risultati. Non solo Martina continua ad avere fede nel suo Dio, ma per di più le ferite scomparivano come se non ci fossero mai state. Dopo qualche giorno trascorso nel carcere di Mamertino o Tulliano (Carcer Tullianum), il più antico carcere di Roma, decisero di ripresentarla al cospetto degli dei nel tempio di Diana, fatto sta che il risultato non cambia. Il prodigio si ripeté esattamente come nel precedente, dopo che Martina entrata nel tempio, ordinò al demonio di abbandonare la statua. Provarono così nuove torture, la lapidarono con cocci, tegole e mattoni e poi, per giusta misura, le infilzarono tutte le membra con spilloni appuntiti. Inutile dire che Martina uscì da questo trattamento senza nemmeno un segno. Provarono ad immergerla nel grasso bollente, ma la santa ne uscì unta, ma viva. Allora la portarono nel circo perché fosse sbranata dalle belve, ma queste non si degnarono nemmeno di assaggiarla; anzi, le si accucciarono ai piedi. Anche l’ultimo tentativo, gettarla nel fuoco, fallì miseramente e infine fu la spada a porre fine a tante sofferenze e supplizi, fu decapitata presso il X miglio della via Ostiense dove fu eretta una chiesa poi scomparsa.