Oggi 17 febbraio si celebra i santi Sette Fondatori, come dice il nome, furono i primi padri fondatori dell’Ordine dei Servi di Maria (serviti), oltre a san Filippo Benizi, che si aggiungerà ai sette e che sarà il quinto generale dell’Ordine. Secondo la Legenda de Origine Ordinis, fu un gruppo numericamente ben determinato, ossia, di sette frati. I primi fratres, della religiosa famiglia dei Servi di Maria furono anche tutti fiorentini. Il Martirologio Romano commemora singolarmente i Sette Santi Fondatori dell’Ordine dei Servi di Maria nel dies natalis di ciascuno di essi. Il permesso di rendere loro un culto collettivo fu concesso da Leone XIII nel 1888. Nel periodo della lotta fra l’imperatore Federico II e il papato, un gruppo di sette mercanti devoti della Vergine Maria, legati tra loro dall’ideale evangelico della comunione fraterna e del servizio ai poveri e agli ammalati, si erano ritirati in solitudine a Cafaggio, fuori Firenze, indossando l’abito consueto dei penitenti, fondando la Societas Sanctae Mariae. Anche nel mondo erano “innamorati della Madonna” e per questa ragione, anche se non erano frati, vollero appellarsi “Servi di Santa Maria” e dedicarsi al suo servizio. In seguito la Madonna ispirò loro il desiderio di abbandonare il mondo e riunirsi in vita comune. Dopo aver disposto delle loro case e delle loro famiglie, e lasciando a queste ultime il necessario, distribuirono il resto ai poveri e alle chiese. Decisero perciò di ritirarsi, su consiglio del vescovo Ardingo, sul Monte Senario, a poca distanza da Firenze, dove costruirono un oratorio dedicato a Santa Maria sul Monte Senario, fondato sull’umiltà, costruito con la loro concordia, conservato dalla loro povertà, abbellito dalla loro purezza e completato col loro buon esempio. Di essi conosciamo i nomi: Bonfiglio Monaldi, Bonagiunta Manetti, Manetto dell’Antella, Sostegno sostegni, Amadio Amidei, Uguccione Ugoccioni e Alessio Falconieri. Sul Monte Senario un solo sepolcro raccoglie insieme, anche dopo morte, quelli che la vita aveva reso una cosa sola.
17 febbraio: san Francesco Régis Clet, nacque a Grenoble (Francia) il 19 agosto 1748, in una agiata famiglia molto religiosa. Compiuti gli studi letterari nel seminario minore di san Martino de Miséré e quelli teologici nel seminario maggiore di Grenoble, il 16 marzo 1769, entrò nella Congregazione della Missione a Lione, fondata a Parigi nel 1625 da san Vincenzo de’ Paoli, dove fu ordinato sacerdote, a 25 anni, il 27 marzo 1773. Verso i 40 anni, i superiori lo chiamano a guidare il Seminario vincenziano di Parigi. Qui trascorse 15 anni nella più grande stima e ammirazione per la sua santità e la sua cultura tanto da essere chiamato “biblioteca vivente” e a lui come esperto teologo si rivolgevano molti sacerdoti per averne dei lumi. Nel 1791, a 43 anni, chiese e ottenne il permesso di partire come missionario in Cina; e nel mese di aprile del 1791 s’imbarcò per l’Oriente. Dopo cinque mesi arriva nella portoghese Macao, dove agli inizi del XVIII secolo i cattolici erano 300 mila, grazie ai primi imperatori manciù della dinastia Ching che hanno consentito le missioni. Ma quando arriva Francesco si è diffusa la diffidenza verso l’Occidente, dal quale provengono i missionari. E tra il 1805 e il 1811 la diffidenza diventa persecuzione aperta che colpisce anche Francesco. Nel 1819 essendo scoppiata una violenta persecuzione fu obbligato a lasciare la sua povera casa e a fuggire nei boschi e nascondersi nelle caverne, ma un giorno fu tradito da un cristiano che fece conoscere a coloro che lo cercavano il luogo del suo nascondiglio e come il suo Divino Maestro fu venduto ai suoi persecutori per trenta denari, portato davanti ai giudici e gettato in prigione, più volte comparve davanti ai mandarini e governatori di Ho-Nan. Non gli fu risparmiato nessun supplizio. In ginocchio su delle punte di ferro, con delle travi ai piedi e alle mani, dovette sopportare tutte le brutalità dei suoi aguzzini, che manifestarono una rabbia inaudita fino a bastonarlo a sangue. In mezzo alle più atroci sofferenze custodendo l’animo calmo, dolce e paziente, il viso sorridente, sopportava tutto senza proferire il minimo lamento. L’imperatore infine comandò che fosse strangolato. L’esecuzione di questa sentenza ebbe luogo il venerdì 17 febbraio 1820 a Wuchang (Cina), a 71 anni.
17 febbraio: san Costabile Gentilcore, nacque a Tresino, frazione di Castellabate (Salerno), tra il 1069 ed il 1070, da un’umile famiglia. Ancora adolescente entrò nel monastero benedettino della Santissima Trinità di Cava dei Tirreni e la sua educazione e formazione spirituale fu affidata a san Leone da Lucca, considerato il secondo abate di Cava dei Tirreni. Dal gennaio del 1119 con il titolo di Abbas constitutus affiancò, nella guida dell’abbazia di Cava, san Pietro Pappacarbone, nato da nobile famiglia longobarda di Salerno che, nell’ottobre del 1122, gli consegnò il pastorale nominandolo suo successore, fu il 4º abate della Badia di Cava. Costabile durante il suo breve periodo abbaziale non poté fare molte cose, ma con il suo carattere mite ed umile, preferì guidare i suoi monaci con l’esempio e la dolcezza, tanto che gli fu attribuito l’affettuoso titolo di operimentum fratruum. Con l’autorizzazione del duca Guglielmo II d’Altavilla, figlio di Ruggero Borsa e nipote del Guiscardo, il 10 ottobre 1123, diede inizio nel Cilento alla costruzione del castello dell’Angelo detto Castrum Abatis poi Castellabate per la difesa delle popolazioni locali dalle incursioni dei saraceni africani che, nel 1113, avevano devastato e depredato il territorio cilentano. Dopo la sua morte avvenuta il 17 febbraio 1124 a soli 53 anni, i lavori di fortificazione furono continuati dal suo successore, il beato benedettino Simeone.
17 febbraio: san Teodoro di Amasea, non si conosce la città natale di Teodoro, secondo alcuni sarebbe nato in Cilicia, secondo altri in Armenia. Secondo la tradizione fu arruolato nell’esercito romano e, al tempo di Galerio, trasferito con la sua legione, nei quartieri invernali di Amasea (l’odierna Amasya nel Ponto). Era allora in atto la persecuzione contro i cristiani già avviata da Diocleziano e riproposta da Galerio Massimiano, imperatore dal 305, con una serie di editti che prescrivevano a tutti di fare sacrifici e libagioni agli dei. Teodoro rifiutò di sacrificare agli dei, nonostante le sollecitazioni dei compagni. Venne accusato di essere cristiano e denunciato al giudizio del tribuno. Durante l’interrogatorio, nonostante l’alternanza di minacce e promesse, rifiutò di sacrificare agli dei. È nota la riluttanza dei governatori a mandare a morte gli accusati, ancor di più in questo caso trattandosi di un legionario: essi preferivano ricorrere alla tortura per piegarne la resistenza e far loro salva la vita. Il prefetto Brinca, vista anche la giovane età e l’intelligenza di Teodoro, si limitò a minacciarlo e gli concesse una breve proroga temporale per permettergli di riflettere. Teodoro invece ne approfittò per continuare l’opera di proselitismo e, per dimostrare che non aveva alcuna intenzione di rinunciare alla religione cristiana, incendiò il tempio della gran madre degli dei Cibele che sorgeva al centro di Amasea, presso il fiume Iris. Venne così nuovamente arrestato e il giudice del luogo, tale Publio, ordinò che venisse flagellato, rinchiuso in carcere e lasciato morire di fame. Ma questa punizione sembrava non avere nessun effetto su Teodoro, che anzi rifiutò persino il bicchiere d’acqua e l’oncia di pane al giorno, che i suoi carcerieri gli porgevano. Scampato alla morte per fame, Teodoro venne infine tolto dal carcere e ricondotto in giudizio. I magistrati gli fecero grandi promesse, lo sollecitarono vivamente di accondiscendere alla volontà degli imperatori anche solo in apparenza, promettendo che lo avrebbero lasciato libero. Gli offrirono perfino la carica di pontefice. Teodoro rifiutò sdegnosamente e tenne testa al tribunale, non riconoscendo i loro dei, beffandosi delle proposte che gli venivano fatte e testimoniando che non gli avrebbero strappato una sola parola né un solo gesto contro la fedeltà che doveva al Signore. Il giudice, vedendo l’ostinazione di Teodoro, ordinò allora che venisse torturato con uncini di ferro, fino a mettere a nudo le costole, e lo condannò ad essere bruciato vivo. I carnefici lo condussero nel luogo stabilito e presero la legna da mercanti addetti ai bagni. Teodoro depose i suoi vestiti e i numerosi fedeli accorsi si agitavano per poterlo toccare, respinti dai carnefici. I carnefici lo legarono, accesero il rogo e si allontanarono. La leggenda racconta che Teodoro non subì l’offesa delle fiamme, morì senza dolore e rese l’anima glorificando Dio. Morì ad Amasea il 17 febbraio 306.