a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 18 settembre la chiesa celebra san Giuseppe da Copertino (al secolo Giuseppe Maria Desa), nacque a Copertino (Lecce) il 17 giugno 1603 in una stalla, perché il padre Felice, custode del castello dei marchesi di Copertino, si era dato alla macchia per aver firmato cambiali in favore di alcuni amici. L’ambiente poco sereno e inadatto per un bambino lo fece crescere un pò trasognato, tanto da meritargli il nomignolo di “boccaperta” per essere rimasto incantato all’ascolto del suono dell’organo durante le prove di canto. A 7 anni fu mandato a scuola, ma dovette presto lasciarla perché un tumore cancrenoso lo costringerà a letto per 5 anni. Un giorno, all’età di 15 anni, la mamma Franceschina lo condusse presso il Santuario di Santa Maria delle Grazie di Galatone. Ricevuta l’unzione con l’olio della lampada votiva Giuseppe guarì all’istante e tornò a Copertino con le proprie gambe. Sui 16 anni chiese di entrare tra i Frati Minori Osservanti, ma ebbe poca fortuna e fu giudicato inadatto. Fu accettato come fratello laico tra i Cappuccini e nell’agosto 1620 fu inviato a Martina Franca per l’anno di Noviziato col nome di fra Stefano, ma qualche mese dopo fu rimandato perché incapace a qualsiasi mansione. Uscito dai Cappuccini si vergognò di tornare a Copertino e dopo varie peripezie, fu ricevuto tra i Frati Minori Conventuali del convento della Grottella. Fra Giuseppe fece il suo anno di Noviziato da solo sotto la guida dello zio materno, padre Giambattista Panaca: superando qualche ostacolo nell’apprendimento del latino e della Regola di San Francesco a memoria. Studiava di nascosto e si esercitava nello scrivere anche di notte. Fu ordinato sacerdote il 28 Marzo 1628 a Poggiardo. Fra Giuseppe si distingueva per lo spirito di preghiera alla quale dedicava molte ore del giorno: il Signore gli concesse doni straordinari come estasi e levitazioni che confondevano l’umiltà del nostro santo il quale per parte sua evitava quanto più poteva di farsi vedere. A causa dei miracoli che gli venivano attribuiti e delle estasi che lo portavano a compiere voli, subì due processi del Sant’Uffizio. Il popolo cominciò a conoscere questi fenomeni, e spesso il nostro frate si ritrovava con l’abito tagliuzzato dai devoti. Al ritorno a Copertino trovò l’ordine del Sant’Uffizio di presentarsi a Napoli al tribunale dell’Inquisizione. Lo convocò per capire di che si trattasse e nel monastero napoletano di San Gregorio Armeno, davanti ai giudici, Giuseppe ebbe un’estasi; la Congregazione romana del Sant’Uffizio alla presenza di papa Urbano VIII, lo assolse dall’accusa di abuso della credulità popolare e lo confinò in un luogo isolato, lontano da Copertino e sotto sorveglianza del tribunale. Giuseppe obbedì, pur con fatica e superò tutte le prove previste, perché i suoi costumi e la sua dottrina erano ineccepibili. Tuttavia ricevette l’ingiunzione di essere trasferito in un convento appartato. Così venne mandato ad Assisi, dove risiederà per 15 anni, e la sua popolarità aumentò. La mattina del 23 Luglio 1653 fu trasferito a Pietrarubbia, nelle Marche. Non potrà parlare con nessuno, scrivere a nessuno, non rivelare la presenza; le relazioni personali erano riservate ai soli Cappuccini del Convento. La notizia che fra Giuseppe era a Pietrarubbia non tardò a circolare e molta gente si riversò nel piccolo paese tra le colline marchigiane, così arrivò l’ordine di condurlo in altro luogo. Ecco la fede di Giuseppe da Copertino: la grazia lo aveva plasmato fino a farlo giungere alla perfetta assimilazione con la volontà di Dio. Viveva un amore incondizionato alla Chiesa, sempre disponibile alla pronta obbedienza ai pastori, accettando anche l’incredulità e il sospetto di alcuni ministri di Dio. Copertino, Grottella, Napoli, Assisi, Pietrarubbia, poi ancora Fossombrone e infine Osimo tra i suoi confratelli conventuali. E così partì, con quello che aveva addosso, per quella che sarebbe stata la sua ultima dimora. Arrivarono la sera del 9 luglio al Convento di San Francesco in Osimo; entrarono e Giuseppe sussurrò: «Haec requies mea», aveva trovato la sua sede terrena definitiva. Morì il 18 settembre 1663; protettore degli studenti.
18 settembre: santa Arianna di Primnesso, è una martire cristiana del II secolo, sulla cui esistenza non si hanno notizie certe. Secondo la leggenda, avrebbe subito il martirio a Primnesso, in Frigia (l’odierna Seulun in Turchia), per essersi rifiutata di offrire sacrifici agli dèi. Secondo la leggenda, Arianna sarebbe stata la schiava di Tertullo, un decurione (membro del consiglio o senato municipale) di Primnesso; Arianna si sarebbe rifiutata di interrompere il proprio digiuno per la festa di compleanno del figlio di Tertullo, il quale avrebbe così scoperto la fede cristiana della donna e dopo essere stata flagellata, rinchiusa nella prigione domestica per un mese, al termine del quale Tertullo venne denunciato da spie al preside Gordio, con l’accusa di nascondere una cristiana (i cristiani erano criminalizzati da un editto locale); passato tale periodo, tuttavia, Tertullo venne accusato di nascondere da qualche delatore al preside Gordio. Tertullo, condotto in giudizio, fu abilmente difeso da Nicagora ed uscì assolto dal processo, sostenendo che Arianna faceva parte della dote della moglie e che egli nulla sapeva della sua fede, mentre Arianna interrogata si proclamò apertamente cristiana, di famiglia cristiana, rifiutò di sacrificare agli dei. Arianna venne condannata ad essere torturata sul cavalletto, ma Gordio concesse ad Arianna tre giorni per abiurare la propria fede su forte richiesta popolare (la gente era rimasta infatti impietosita dalla giovane età della ragazza); allo scadere dei tre giorni, Arianna scappò sulle montagne e, braccata dagli inseguitori, per salvarsi pregò Dio affinché l’accogliesse dentro un sasso e Dio l’esaudì. Gordio ordinò ai sacerdoti del tempio di aprire la roccia ed estrarre la ragazza, mostrando così la potenza degli dèi pagani, ma un temporale improvviso e l’apparizione di due angeli costrinsero la folla spaventata alla fuga.
18 settembre: Venerabile Francesco Maria Castelli, nacque a Sant’Anastasia (Napoli) il 19 marzo 1752, da una nobile famiglia baronale. Fu battezzato due giorni dopo dallo zio, sacerdote dei Pii Operai Carlo Castelli; primo di nove figli, in una famiglia di discendenza storica, proveniente dalla Vecchia Castiglia. Crebbe e si formò in un ambiente sano, applicandosi con diligenza allo studio; la pietà e il fervore religioso, ispirarono in lui, ben presto una grande devozione, soprattutto verso la Vergine, che invocava con l’appellativo di Madonna della Purità. In famiglia era additato come esempio ai fratelli, mentre nel paese dove era generalmente chiamato “o santariello” (il santarello), si cominciava a parlare delle estasi e dei prodigi che compiva. A 15 anni, sentendosi “innamorato” della vita religiosa, avendo frequentato per studio i Frati francescani conventuali di Sant’Anastasia, scelse di entrare fra i padri Barnabiti, fondati nel 1530 da sant’Antonio Maria Zaccaria, i quali venivano a villeggiare con i loro aspiranti, alla “Zazzara”, località poco distante dal palazzo dei baroni Castelli. Quindi nel novembre 1766, fu accompagnato a Napoli al fiorente collegio dei barnabiti di San Carlo alle Mortelle, i cui giovani studenti vestivano l’abito clericale e si preparavano oltre che negli studi umanistici, anche per molti a divenire sacerdoti secolari o religiosi. Ebbe come maestro san Francesco Saverio Maria Bianchi, il grande “Apostolo di Napoli” barnabita e formatore di santi, venerabili e servi di Dio napoletani. Terminati gli studi umanistici, nel marzo 1770 a 17 anni, entrò come novizio nella Congregazione dei Chierici Regolari di San Paolo (barnabiti), l’anno trascorse con il più grande fervore. Il 1 maggio 1771 emise i voti, ma dopo qualche mese una subdola malattia, la tisi, si affacciò nella sua giovane esistenza, 19 anni, con una fastidiosa tosse, che diede timore a tutti; furono chiamati i migliori medici, si misero in atto tutte le cure più idonee ed affettuose, ma tutto fu inutile, la malattia progredì inesorabilmente. Il più tranquillo era proprio Francesco Maria, il quale aveva già predetto, che non sarebbe arrivato al sacerdozio perché non ne era degno. Ai primi di settembre del 1771 gli si propose di ritornare per qualche giorno in famiglia, per respirare l’aria balsamica della rinomata zona vesuviana, egli non oppose resistenza, anche se il distacco dai confratelli e il lasciare la sua cella, lo metteva a dura prova, portò con sé ancora una volta l’immagine della Madonna della Purità, come conforto nei giorni del suo involontario esilio. Trascorse quindici giorni nel suo antico palazzo, dove i familiari erano angosciati per lui. La sera del 18 settembre 1771 era agonizzante, attorno a lui c’erano i desolati familiari, il padre barnabita Narducci e il parroco di Sant’Anastasia e proprio a lui, il moribondo Francesco chiese l’ora, «Sono le ventitré» rispose il parroco e lui: «Bene ecco un’ora buona, ancora un’altra e io sarò nell’eternità», alle 24 precise, con lo sguardo rivolto alla Madonna della Purità, il giovane raggiungeva la schiera degli angeli in Paradiso. Morì il 18 settembre 1771, a 19 anni