a cura di Riccardo Pecchia
Oggi 19 giugno la chiesa festeggia santi Gervasio e Protasio, fratelli gemelli milanesi e la tradizione agiografica vuole che siano stati figli dei santi Vitale e Valeria, le notizie sulla loro vita si perdono nel tempo e sono giunti a noi solo pochissimi documenti, non sappiamo quando nacquero esattamente, né di conseguenza il periodo in cui vissero: secondo una tradizione avrebbero professato la loro fede durante l’impero di Nerone e sarebbe stati convertiti al cristianesimo, assieme ai loro genitori, dal vescovo di Milano san Caio. Si racconta che i loro genitori furono martiri della cristianità, il padre Vitale di Milano venne ucciso mentre si trovava a Ravenna e la madre santa Valeria fu assassinata sulla via di ritorno per Milano, appena venuti a conoscenza della morte dei genitori non pianificarono nessuna vendetta, anzi decisero di vendere tutti i beni di famiglia per distribuire il ricavato ai poveri di Milano. Passarono poi 10 anni della loro vita a pregare, meditare e professare tutti i dettami della cristianità. Quando il generale Anastaso passò con le sue truppe nella città, li denunciò come cristiani e li additò come persone da punire e da redimere, allora i due fratelli furono arrestati, torturati ed umiliati. A Protasio fu tagliata la testa con un colpo di spada, mentre Gervasio morì a seguito dei numerosi colpi di flagello ricevuti. Morirono a Milano nel III secolo. Il 17 giugno 386, durante uno scavo, per una nuova basilica, nell’antica zona cimiteriale della città di Milano eseguito per volere di sant’Ambrogio, riemersero dal terreno due corpi. La zona in cui furono effettuati gli scavi era un antico luogo di sepoltura della città in cui erano stati sepolti molti cristiani, ammazzati dai romani, poco distante dal posto in cui il vescovo aveva ordinato la costruzione della chiesa. Naturalmente al momento del ritrovamento delle spoglie, nessuno poteva dare un nome a quei cadaveri, perché nessuno ne conosceva l’identità. Così, Ambrogio, annunciò al popolo che le reliquie rinvenute erano quelle dei santi Gervasio e Protasio, e ordinò la traslazione dei corpi dei martiri all’interno della nuova basilica, introducendo per la prima volta nella Chiesa occidentale la fortunatissima pratica della traslazione delle reliquie di santi e martiri a scopo liturgico, secondo quanto era già in uso in oriente. Così, il 19 giugno 386 furono celebrati i santi martiri Gervasio e Protasio e la basilica fu finalmente consacrata.
19 giugno: san Romualdo abate, nacque a Ravenna tra il 951 ed il 953, da una famiglia nobile. Seguendo l’esempio dei suoi genitori, si dedicò con tutto se stesso ai piaceri del mondo. Intorno al 972, il padre si è batté in duello con un nemico ¬ a quanto risulta, un suo fratello, per un dissidio di terre¬, uccidendolo a colpi di spada. Romualdo, aveva 20 anni, è stato testimone della scena brutale. Egli vedendo da un lato il morto steso al suolo con le ferite grondanti sangue, e dall’altro, il padre, percepì, come è orribile l’uomo che si lascia dominare dalle passioni sregolate. Scioccato, prese la decisione di abbandonare i piaceri della vita mondana e di farsi monaco. Entrò nel monastero di Sant’Apollinare in Classe nei pressi di Ravenna, dove ricevette i primi insegnamenti della Regola di San Benedetto e i voti. Ma non vi si trovò bene, essendo la vita di quei monaci piuttosto rilassata e si recò presso un eremita, Marino, in territorio veneziano, sottoponendosi alla sua guida spirituale. Qui conobbe l’abate Guarino, uno dei più importanti monaci riformatori del X secolo; questi convinse il giovane eremita, non ancora trentenne, a seguirlo nella sua abbazia di San Michele a Cuixà, nei Pirenei. A Cuixà, centro di un vero rinascimento culturale, oltre che monastico, Romualdo si trattenne 10 anni e compì la sua formazione. Con spirito critico nei confronti della secolarizzazione dei suoi tempi e attraverso una nuova interpretazione della vita monastica, Romualdo gettò le basi di un’importante riforma. In un momento storico in cui la secolarizzazione della vita cenobitica accentua con forza la divisione tra eremo e cenobio e i monaci eremiti professavano distanti dal cenobio e in forme anacoretiche che non prevedevano l’eremo, egli recupera le radici dei Padri del monachesimo. Tutto il suo cammino sarà dedicato a coniugare stili e autorità differenti, cercando incessantemente di armonizzare la Chiesa e il monachesimo e soprattutto di coniugare la realtà cenobitica ricca di forme rigide e istituzionalizzate, con la realtà eremitica, di contro così spontanea e priva di ogni regolamentazione. Ritornò in Italia nel 988, si dedicò a vita eremitica nell’eremo di Poreo, presso Ravenna. Intorno all’anno 1001 il giovane imperatore Ottone III convinse l’eremita a divenire abate di Sant’Apollinare in Classe; ma la sua vocazione era quella della solitudine con Dio e del rinnovamento della vita eremitica e quindi, dopo appena un anno, rinunciò all’incarico, e si recò a Montecassino. Intorno al 1014 Romualdo fondò un eremo a Sitria, presso Scheggia (Perugia) e, dopo poco, volle aggiungervi un piccolo monastero (cenobio) con una chiesa: l’abbazia di Santa Maria di Sitria. A Sitria si sottopose a severi digiuni, nel silenzio, meditando le Sacre Scritture, ed attirando a sé una gran folla di penitenti. Rimase in terra umbra quasi 7 anni, gli ultimi prima di recarsi a Camaldoli. Fondò e riformò numerosi monasteri fino a giungere a Camaldoli, dove si stabilì definitivamente e costituì l’Ordine camaldolese; costruire, avviare una convivenza, insegnare, partenze e arrivi ritmano la vita di Romualdo, che si conclude in un altro monastero fondato da lui: quello marchigiano di Val di Castro, qui egli muore da eremita qualsiasi in una piccola cella. Morì il 19 giugno 1027, a 75 anni.
19 giugno: san Deodato di Nevers, nato da famiglia nobile francese, fin da piccolo imparò ad amare Dio e il prossimo, a preferire la virtù alla ricchezza e a coltivarla assiduamente e con perseveranza tutti i giorni della vita. Fu eletto vescovo di Nevers, verso il 655, e compì le sue funzioni come un pastore che cerca solo la gloria di Dio e la salute delle anime. Sulla cattedra episcopale ci restò solo tre anni, poi per il grande amore che portava alla solitudine, ma anche per lo sdegno che provava nel costatare l’eccessiva ingerenza dei re nelle questioni ecclesiastiche, con alcuni compagni si ritirò in solitudine sulle montagne dei Vosgi, qui costruì una cella e una cappella in onore di san Martino, poi andò sull’isola di Ebersheim, dove verso il 661 si erano rifugiati alcuni eremiti per vivervi in comunità. Deodato abbracciò la loro disciplina, contento di avere trovato contemporaneamente la santità di vita, l’estremo rigore della penitenza e il nascondimento. Con l’aiuto di Childerico II, re di Austrasia e di Neustria, egli fece costruire una chiesa in onore dei santi Pietro e Paolo. Siccome la direzione del monastero non permetteva a Deodato di darsi agli esercizi della contemplazione, ancora un volta egli andò in cerca di un luogo più solitario nei dintorni di Angiville, nella diocesi di Basilea. Vi costruì un eremitaggio, ma fu ben presto obbligato a lasciarlo dagli abitanti del paese i quali, poiché vivevano di brigantaggio, temevano che il nuovo venuto cercasse di cambiare i loro costumi. Dopo varie peregrinazioni, si stabilì in una zona, detta Jointures, a causa dell’unione di due fiumi Fave e Meurphe, dove edificò un monastero introducendovi una regola basata su quella di san Colombano. Molti giovani affascinati dal suo buon esempio chiesero di poter vivere sotto la disciplina del santo abate, così fondò un monastero che prese il suo nome (Saint Dié), dove introdusse una regola basata su quella di san Colombano. Quando Deodato iniziò a sentire che le forze lo abbandonavano, temendo di nuocere alla vita regolare della comunità con i suoi acciacchi, si ritirò nella sua cella, e di là governò i monaci con uguale zelo e vigilanza come se si fosse trovato in mezzo a loro. Morì nell’Abbazia di Saint-Dié il 19 giugno 679 circa, a 90 anni.