Oggi 22 maggio la chiesa festeggia santa Rita da Cascia (al secolo Margherita Lotti), nacque a Roccaporena (Perugia) nel 1381, un giorno, mentre Margherita ascoltava la Messa a Cascia, nella chiesa di Santa Maria Maddalena, fu colpita dalle parole: «Ego sum Via Veritas et Vita» (Io sono la Via la Verità e la Vita), e da quel momento decise di incarnarlo nella sua vita. Sentì allora il profondo desiderio di consacrarsi a Dio, e rimanere in quel monastero di Santa Maria Maddalena dove aveva udito quella affascinante “Parola”. Ma i genitori si opposero, dato che avevano su di lei altri progetti e la ragazza fu costretta ad accettare il marito che i genitori avevano pensato di darle. Margherita fu data in sposa, a 17 anni, a Paolo di Ferdinando Mancini, un giovane di una illustre famiglia di Cascia. I primi anni di matrimonio dovettero essere difficili, ma Margherita, grazie alla sua formazione cristiana, alla sua dolcezza e mitezza di carattere, riuscì a trasformare il carattere impulsivo del marito. Dal matrimonio nacquero due figli, forse gemelli, Giangiacomo e Paolo Maria. La vita matrimoniale di Margherita fu sconvolta dall’assassinio del marito mentre rincasava in piena notte. Rita, rimasta sola con i suoi due figli, ancora adolescenti, fu assalita non solo dall’angoscia per la perdita del marito, ma anche dal pensiero della faida di sangue che stava per scatenarsi. Rita riuscì a perdonare gli assassini, non altrettanto riuscirono a fare i figli e a nulla valsero le sue esortazioni al perdono poiché l’ambiente sociale e familiare spingevano alla vendetta. I due giovani giurarono di vendicare il padre. Quando Rita si accorse dell’inutilità dei suoi sforzi per sconsigliare i figli dalla vendetta, ebbe il coraggio di pregare Dio perché li chiamasse a sé, piuttosto di permettere che si macchiassero di omicidio. I quali morirono, di peste, qualche tempo dopo. Rimasta sola, Rita andò a bussare al convento delle suore agostiniane di Cascia. La sua richiesta non fu accettata poiché accogliere nel monastero una “vedova di sangue” voleva dire coinvolgere nella faida anche quel luogo sacro e le altre suore. Rita allora capì che non avrebbe potuto realizzare il suo sogno se non fosse prima avvenuta la pace tra i parenti dell’uccisore e dell’ucciso. Fu tutto inutile, tanto che le monache rifiutarono più volte di aprirle le porte del monastero. Sola, nella casa deserta, pregò i suoi tre santi protettori: Giovanni Battista, Agostino e Nicola da Tolentino, finché una notte avvenne il miracolo. I tre santi le apparvero e la invitarono a seguirla, giunti davanti alla porta del convento, nonostante essa fosse chiusa da chiavistelli e catenacci, essi la spalancarono e condussero Rita nel mezzo del coro, dove le suore stavano pregando. Rita poté così realizzare il desiderio di consacrarsi a Dio. Qui la badessa del monastero mise a dura prova la vocazione e l’obbedienza di Rita, facendole annaffiare un arbusto di vite secco, presente nel chiostro del monastero, il legno, dopo un pò di tempo, ricominciò a dare i suoi frutti. Negli ultimi 15 anni della sua vita, Rita portò sulla fronte la stigmate di una delle spine di Cristo quale segno mistico della sua partecipazione alle sofferenze di Gesù crocifisso. Il Venerdì santo del 1442, dopo che aveva ascoltato una predica sulla passione di Gesù, ritornata al monastero, si gettò ai piedi di un Crocifisso, qui pregando, domandò al Signore la grazia di provare nel suo corpo un dolore simile a quello che Gesù aveva provato per una delle spine della corona, così fu esaudita, perché nel mezzo della sua fronte sentì non solo il dolore delle spine, ma ve ne rimase una, che le durò tutto il tempo della sua vita. Rita trascorse gli ultimi anni di vita inferma, immobile sul suo povero giaciglio, priva anche della forza di nutrirsi e circondata dall’affetto delle monache e di tutto il popolo di Cascia. Un giorno d’inverno, una parente le fa visita, nell’andar via chiese se da casa desiderava qualcosa. Rita rispose che avrebbe voluto una rosa e due fichi del suo orto, la donna sorrise, credendo che delirasse per la febbre e se ne andò. Giunta a casa e entrò nell’orto dove vide una rosa e sulla pianta due fichi maturi; sorpresa per la difficoltà della stagione, visti il fiore e i frutti miracolosi li colse e li portò a Rita. Morì il 22 maggio 1457, a 76 anni, patrona dei casi disperati e impossibili.
22 maggio: santa Giulia di Corsica, nacque a Cartagine nel 420, si conosce poco e niente di Giulia e le poche informazioni attendibili provengono da una Passio del VII secolo scritta secoli dopo la sua morte e intrecciata di miti e leggende. Secondo la Passio dopo che i Vandali di Genserico si furono impadroniti di Cartagine, tra le fanciulle fatte prigioniere dai vincitori ci fu Giulia, di nobile e aristocratica famiglia romana, la gens Iulia, e di fede cristiana. Venduta come schiava, fu acquistata da un mercante, Eusebio di Siria, al quale, pur essendo pagano, apparvero subito le doti della giovane, che era così sottomessa, capace e devota da essere la persona di cui si fidava più che d’ogni altra e che portava sempre con sè nei suoi viaggi, trattandola come una figlia. In uno di questi viaggi, verso la Francia, la nave di Eusebio naufragò a Capo Corso (Nonza) in Corsica, dove regnava un ambiguo tiranno che si faceva chiamare “governatore’” e il cui nome era Felice. I naufraghi, disperati, fecero sacrifici agli dei, mentre Giulia si rifiutò in quanto era di religione cristiana. Il governatore Felice aveva puntato gli occhi su quella dolce e bella schiava, e chiese al mercante Eusebio di poterla acquistare. Alla risposta negativa del mercante, Felice si adirò non poco, e una sera, approfittando dell’ubriachezza del mercante siriano, si fece portare dinnanzi a Giulia, promettendole la libertà dalla condizione di schiava se avesse fatto un sacrificio agli dei. Giulia avrebbe risposto: «io sono già libera servendo Gesù Cristo mio Signore, mentre non potrei mai esserlo se servissi i vostri idoli pagani». Il governatore, seccato, tentò più volte di convincerla, ma alla fine, ricevendo l’ennesima risposta negativa, ordinò che, il giorno seguente, alla schiava venissero strappati i capelli, che venisse flagellata, e da ultimo che fosse crocifissa come il Dio che ella amava. Quella notte, alcuni monaci abitanti dell’isola di Gorgona (Livorno) vennero informati in sogno, dagli angeli, di quello che sarebbe accaduto a Giulia la mattina successiva e si affrettarono quindi al risveglio con le loro barche a raggiungere il luogo del martirio; giunti a poche centinaia di metri dalla costa della Corsica, avvistarono la croce a cui era inchiodata alle mani e ai piedi la povera donna e videro che, fissata alla croce, vi stava un cartiglio con la storia del martirio e il suo nome, Giulia. Questa carta, a detta dei monaci che recuperarono il corpo dell’infelice, era stata scritta “da mani angeliche”. Morì il 22 maggio 448, a 20 anni; patrona della Corsica e di Livorno.
22 maggio: san Fulgenzio di Otricoli, venne nominato vescovo di Ocriculum (Otricoli), Otricoli, sua patria natale, nell’anno 540 d.C. La sua vita ci viene tramandata da san Gregorio Magno nei Dialoghi. Egli ci narra che Fulgenzio era assai odiato dallo spietato re Totila, re degli Ostrogoti. Essendo egli arrivato in capo al suo esercito in quella zona, verso gli anni 543-544, vescovo si affrettò a mandargli dei doni tramite alcuni suoi chierici per tentare in questo modo di placare la sua selvaggia ferocia. Totila però appena vide i doni, dimostrò di non gradirli e in un impeto di collera comandò ai suoi uomini di incatenare Fulgenzio, in attesa del severo giudizio. Quei crudeli Goti, degni esecutori dei crudeli ordini del loro re, si recarono da lui, lo presero e lo circondarono comandandogli di non muoversi. Anzi, tracciarono per terra un cerchio e gli comandarono di non muovere un passo fuori di esso. Fulgenzio rimase così esposto sotto il sole cocente, circondato dai Goti, senza poter allungare un piede fuori di quel cerchio. Ma all’improvviso si scatenò un bagliore di lampi, un fragore di tuoni e un acquazzone così dirotto che coloro che lo circondavano per tenerlo d’occhio non poterono reggere sotto tanta pioggia che inondava tutta la terra intorno, ma nemmeno una goccia cadde all’interno del cerchio in cui si trovava Fulgenzio, gli Ostrogoti di ciò ammirati, allora smisero di oltraggiarlo e lo lasciarono libero. I soldati riferirono il miracolo al re, il cui furore verso il vescovo si mutò in grande reverenza. Dopo aver provocato altre stragi e rovine intorno a Roma nell’anno 546 Totila tornò ad Ocriculum e cercò, per tre giorni di seguito, di costringere Fulgenzio a passare all’arianesimo; questi rimase però fedele alla dottrina cattolica, esortandolo a sua volta a rinnegare il credo ariano. Al quarto giorno Totila infuriato fece imprigionare il vescovo ordinando che fosse portato fuori città e quindi sepolto vivo. Il Signore volle rendere glorioso quel martirio mostrando la santità di Fulgenzio facendo scendere solo sopra quel pezzo di terreno una neve purissima e facendo risplendere un globo di luce dal quale si udì una voce angelica che magnificava il santo vescovo Fulgenzio. Allora la fossa in cui era stato sepolto fu aperta e il santo vescovo fu trovato morto in atto di pregare.