a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 20 settembre: santa Candida di Cartagine, nata e vissuta a Cartagine, capitale della romana Provincia d’Africa. All’epoca dell’imperatore Diocleziano, l’impero era diviso tra due Augusti (imperatori) e due Cesari, che avrebbero poi ereditato il potere imperiale: il sistema era noto come tetrarchia e i due imperatori avevano ugual potere, ma ognuno con una propria corte. Su insistenza dell’imperatore Massimiano, vennero emanati editti che proibivano di professare il cristianesimo, ordinavano l’arresto del clero e la demolizione di tutte le chiese. Tra i due Massimiano era decisamente ostile alla religione cristiana, tanto da far radere al suolo la città di Cartagine, nel 303 d.C., dove la giovane Candida per non sconfessare la fede cristiana, fu arrestata e deportata da Cartagine a Roma ad altri cristiani. Percorsa e torturata fino ad essere completamente ricoperta di piaghe in tutto il corpo e martirizzata. Venne poi abbandonata dai persecutori su di una barchetta, dove sarebbe giunta sulle sponde di Ponza. Le sue spoglie, gettate in mare e ritrovate il 20 settembre, sarebbero giunte, trasportate dalla corrente, nei pressi dell’isola di Ventotene, dove sarebbero state raccolte e venerate dagli abitanti del luogo.
20 settembre: sant’Eustachio, era un cavaliere dell’esercito romano di nome Placido, forse appartenente alla famiglia patrizia romana dei Placidi, ed era al servizio dell’allora imperatore Marco Ulpio Traiano. In contrasto al valore militare del generale Placido, dovuto a precedenti successi militari in Asia minore, vi era il suo carattere misericordioso e la sua benevolenza, espressa in opere caritatevoli, verso le classi sociali più deboli nonostante egli non fosse un cristiano. Nei tempi di pace si dedicava alla caccia e proprio durante una battuta nei pressi di Tivoli, mentre stava braccando un cervo, vide apparire in mezzo alle corna dell’animale una croce che emanava un intenso bagliore e udì una voce esclamare: «Placido, perché mi perseguiti? Io sono quel Cristo che tu non conosci, ma che onori con le tue opere. Adesso ti indicherò la via della verità per la salvezza tua e dei tuoi cari. Recati, dunque, dal vescovo Giovanni che ti purificherà dal lavacro del peccato originale e da ogni altra contaminazione». Dopo aver sentito tali parole, egli portò sua moglie e i suoi due figli piccoli dal vescovo e, tramite il rito del battesimo, abbracciarono volontariamente il cristianesimo. A Placido fu dato il nome di Eustachio (dal greco Eustáchios, cioè “che dà buone spighe”) a sua moglie e al suo primogenito rispettivamente i nomi di Teopista e Teopisto che significano “fedele a Dio”, infine al suo secondogenito fu assegnato il nome di Agapito che significa “colui che vive di carità”. Dopo il battesimo la famiglia tornò a casa ed insieme i membri si diressero nel luogo del miracolo dove rividero l’animale, di nuovo con la croce in mezzo alle corna, e udirono la stessa Voce che preannunciò loro che presto una serie di sventure avrebbero messo a dura prova tutta la famiglia. Dopo poco la premonizione si avverò, la famiglia subì varie sventure tra cui la perdita del titolo patrizio, la perdita della casa e del bestiame, la perdita della moglie Teopista e dei figli. Richiamato a dirigere l’esercito dell’Imperatore Traiano, Eustachio venne a sapere che i suoi due figli facevano parte delle sue milizie, seppure si erano persi di vista. Il caso volle che i figli, insieme alla mamma Teopista, si ritrovarono in una casa vicino l’accampamento delle truppe. La famiglia, infine, si riunì prima del martirio. Publio Elio Adriano, successore di Troiano, per festeggiare la vittoria della campagna di Eustachio invitò il generale presso il tempio del Dio Apollo. A seguito del rifiuto del generale, Eustachio insieme alla famiglia fu condotto al circo per essere dato in pasto ai leoni. Tuttavia nessuna bestia si prestò ad assalirli, così fu ordinato di rinchiuderli in un toro di bronzo arroventato, dove consumarono il loro martirio per tre giorni nonostante le loro salme furono ritrovate senza la minima ustione; protettore dei cacciatori e dei guardiacaccia.
20 settembre: sant’Andrea Kim Taegon e compagni, nacque il 21 agosto 1821 in una nobile famiglia, gli yangban, la più importante classe sociale della Corea nel periodo della dinastia Joseon. Il padre Ignazio Kim Che-jun, anch’egli cattolico e poi martire, lo allevò in un ambiente decisamente ispirato ai principi cristiani. L’uomo aveva trasformato la sua casa in una chiesa domestica, ove affluivano i cristiani ed i neofiti della nuova fede per ricevere il battesimo, scoperto tenne con forza la sua fede, morendo a 44 anni martire. Andrea aveva 15 anni quando ricevette il battesimo con il nome di Andrea da uno dei primi missionari francesi arrivati in Corea nel 1836. Lo stesso anno fu inviato a Macao per prepararsi al sacerdozio. Ritornò in Corea come diacono nel 1844 per preparare l’entrata (in clandestinità) del vescovo francese monsignor Jean Joseph Ferréol: organizzò una imbarcazione con marinai cristiani e andò a prenderlo a Shanghai. Qui nel 1845 fu ordinato sacerdote. In seguito, di nascosto, con un viaggio avventuroso, penetrò in Corea, dove lavorò insieme ai missionari in un clima di persecuzione. Il suo apostolato fu agevolato delle capacità di comprendere la mentalità locale. Nel 1846 il vescovo Ferréol lo incaricò di far pervenire delle lettere in Europa, tramite il vescovo di Pechino, ma durante il viaggio fu casualmente scoperto ed arrestato. Subì vari interrogatori e spostamenti di carcere e, nonostante fosse un nobile, avendo manifestato davanti al re e a tutti la fedeltà a Gesù Cristo rifiutandosi di apostatare, venne atrocemente torturato. Venne decapitato il 16 settembre del 1846 a Seul; primo sacerdote martire della nascente Chiesa coreana; patrono dei sacerdoti cattolici coreani.