di don Riccardo Pecchia
Oggi 24 luglio la chiesa festeggia santa Cristina di Bolsena,nacque a Tiro (Italia) nel III secolo, da una nobile famiglia. Ancora bambina fu iniziata alla fede cristiana, all’insaputa dei propri genitori, da una amica e fedele ancella di palazzo, conquistata alla nuova religione dalla predicazione dei discepoli degli apostoli, giunti sulle rive lago di passaggio verso la Gallia. Il racconto della Passione di Santa Cristina narra di una giovane di 11 anni, di nome Cristina, che per la straordinaria bellezza venne rinchiusa dal padre, Urbano, ufficiale dell’imperatore Diocleziano, in una torre, in compagnia di dodici ancelle. Con questo gesto il padre in realtà voleva costringere la figlia, divenuta cristiana, ad abiurare alla pericolosa religione e sottrarla ai rigori della legge persecutoria, ma la fanciulla spezzò le preziose statuette degli dèi, che il padre aveva collocato nella sua stanzetta e ne destinò il metallo ai poveri. Il padre passò allora dalle lusinghe alle percosse: la fece flagellare e rinchiudere in carcere, dato che Cristina persisteva nella sua professione di fede, Urbano la consegnò ai giudici che le inflissero vari e terribili supplizi, nel carcere, dove fu gettata a consumarsi tutta coperta di lividure. Venne consolata e guarita da tre angeli scesi dal cielo. Risultato vano anche questo metodo, si passò alla soluzione finale: legatale una pesante pietra al collo, la gettarono nelle acque del lago di Bolsena, ma la pietra, sorretta dagli angeli, galleggiò e riportò a riva la fanciulla. Di fronte a questo miracolo, lo snaturato padre fu punito da Dio con la morte, ma le tribolazioni di Cristina non ebbero termine, il magistrato Dione, successore del padre, tornò a infierire su di lei. La fece flagellare ma inutilmente, poi gettare in una caldaia bollente piena di pece, resina e olio, da cui Cristina uscì incolume, le fece tagliare i capelli e trascinare nuda per le strade della cittadina lagunare, infine trascinatala nel tempio di Apollo, gli intimò di adorare il dio, ma la fanciulla con uno sguardo fulminante fece cadere l’idolo riducendolo in polvere. Anche Dione morì e fu sostituito dal magistrato Giuliano, che seguendo i suoi predecessori continuò l’ostinata opera d’intimidazione di Cristina, gettandola in una fornace da cui uscì ancora una volta illesa. Cristina fu indomabile nella sua fede, allora Giuliano la espose ai morsi dei serpenti, portati da un serparo marsicano, i quali invece di morderla, presero a leccarle il sudore, la tradizione vuole che i serpenti si rivoltarono contro il serparo mordendolo, ma Cristina mossa a pietà, lo guarì. Non ottenendo risultati Giuliano le fece tagliare le mammelle e mozzare la lingua, che la fanciulla scagliò contro il suo persecutore accecandolo. Infine gli arcieri la trafissero mortalmente con due frecce. Finché in mancanza di più torbida inventiva ne stroncarono la giovane vita con due colpi di lancia. Morì il 24 luglio 297 d.C.; patrona dei mugnai.
24 luglio: san Charbel Makhlouf (al secolo Youssef Antoun), nacque a Biqa’Kafra (Libano) l’8 maggio 1828, da una famiglia di contadini maroniti. Egli ricevette un’educazione cristiana, e sin dalla sua infanzia si appassionò alla preghiera. Fu attratto dalla vita monastica ed eremitica, seguendo l’esempio dei suoi due zii materni, che vivevano nell’eremo del monastero di Sant’Antonio a Qozhaya, dai quali ereditò la fiaccola dell’eroismo nelle virtù. Fin da piccolo Youssef parve manifestare grande spiritualità. Durante la sua primissima infanzia rimase, a 3 anni, orfano di padre e sua madre, che sposò più tardi Lahoud Ibrahim, futuro curato della parrocchia, con il nome di Abdel Ahad. Fu proprio la figura del patrigno a indirizzare Youssef a una vita ascetica e alla preghiera quotidiana. Fin dall’età di 14 anni Youssef portava a pascolare il suo piccolo gregge tutti i giorni, e si recava in una grotta dove pregava in ginocchio davanti ad un’immagine della Santa Vergine. Un mattino dell’anno 1851, a 22 anni, Youssef lasciò la sua casa ed il suo villaggio e si recò al monastero di Nostra Signora di Mayfouq, a Mayfouq, dove si ritirò in preghiera ed entrò, a 23 anni, in noviziato, prima di passare al monastero di San Marone ad Annaya, dove entrò nell’Ordine Libanese Maronita, scegliendo il nome di Charbel, che significa “storia di Dio”. Il 1 novembre 1853 pronunciò i voti nello stesso monastero, perfettamente cosciente delle implicazioni di questi voti: l’obbedienza, la castità e la povertà. Nello stesso anno si trasferì al monastero di San Cipriano di Kfifen dove studiò filosofia e teologia sotto la guida di san Nimatullah Youssef Kassab Al-Hardini, canonizzato nel 2004. Dopo essere stato ordinato sacerdote, il 23 luglio 1859, Charbel fu rimandato dai suoi superiori al monastero di Annaya. Si imponeva una vita d’ascesi e di mortificazione, distaccandosi dalle cose mondane e materiali, dedicandosi al servizio del Signore ed alla salvezza della propria anima. Qui maturò in lui la volontà di ritirarsi in totale solitudine e di vivere in un eremo, permesso che gli fu accordato il 13 febbraio 1875. Qui consacrava il suo tempo al silenzio, alla preghiera, al culto ed al lavoro dei campi. Non lasciava l’eremo che per ordine del suo superiore. Vi viveva alla maniera dei santi padri eremiti, inginocchiato davanti al Santissimo Sacramento, pregando con fervore e trovando le sue delizie nella preghiere durante intere notti. Trascorse 23 anni nell’eremo, servendo il Signore ed osservando scrupolosamente e coscienziosamente le regole della vita eremitica. Mentre celebrava la santa Messa in rito Siro-maronita, il 16 dicembre 1898, al momento della sollevazione dell’ostia consacrata e del calice con il vino e recitando la bellissima preghiera eucaristica, lo colse un colpo apoplettico; trasportato nella sua stanza vi passò otto giorni di sofferenze ed agonia finché lasciò questo mondo. Durante la sua agonia, Charbel non cessava di ripetere la preghiera che non aveva potuto concludere durante la messa: «Padre della verità, ecco il Tuo Figlio che si offre in sacrificio per darti soddisfazione…». Ripeteva ugualmente i nomi di Gesù, Maria, Giuseppe e Pietro e Paolo, patroni dell’eremo. Morì il 24 dicembre 1898.
24 luglio: Servo di Dio Ezechiele Ramin, nacque a Padova il 9 febbraio 1953, da una famiglia modesta. Dopo aver frequentato le medie studiò al liceo classico presso il Collegio Vescovile Barbarigo, dove prese coscienza della povertà diffusa in tutto il mondo. Ciò lo spinse ad aderire ad un gruppo locale di Padova Mani Tese, associazione per la quale organizzò svariati campi di lavoro per raccogliere fondi in sostegno di vari piccoli progetti sostenuti dall’associazione stessa. Nel 1972 entrò nella congregazione clericale dei Missionari Comboniani del Cuore di Gesù fondata da san Daniele Comboni. I suoi studi lo portarono dapprima allo Studio Teologico Fiorentino di Firenze, poi a Venegono Inferiore (Varese), dove studiò al Seminario arcivescovile di Milano, ed infine a Chicago (Stati Uniti), dove si laureò alla Catholic Theological Union. Dopo aver avuto esperienze missionarie dapprima con un gruppo di Nativi americani impoveriti nel Dakota del Sud e poi, per un anno, in Bassa California (Messico), fu ordinato sacerdote il 28 settembre 1980 a Padova, la sua città natale. Inizialmente fu assegnato ad una parrocchia di Napoli, ma dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980 si prodigò a San Mango sul Calore (Avellino) per assistere le vittime; fece ritorno a Napoli nel 1981, e lì organizzò una delle prime dimostrazioni pacifiche contro la camorra. L’anno successivo si trasferì a Troia (Foggia) dove ricoprì il ruolo di Animatore Vocazionale. Nel 1984 fu assegnato a Cacoal, in Rondônia (Brasile). Il 20 gennaio di quell’anno si trasferì a Brasilia, dove seguì dei corsi di cura pastorale, per poi raggiungere la Rondônia nel luglio di quell’anno. Lì incontrò una situazione complessa e difficile: i molti piccoli agricoltori erano oppressi, con mezzi sia legali che illegali, dai latifondisti locali. Inoltre, la tribù indigena dei Surui era stata solo di recente costretta a diventare sedentaria dal governo brasiliano, che aveva forzatamente assegnato loro della terra, e stava iniziando a creare dei problemi. Ispirato dagli insegnamenti di Dietrich Bonhoeffer si pose in prima linea nella lotta per la giustizia di quelle genti, tentando di persuaderli ad intraprendere la strada della protesta pacifica piuttosto che quella della lotta armata. La situazione in cui si trovava lo portò a temere per la propria vita. All’inizio del 1985 fu minacciato di morte; in molte delle lettere che inviò alla famiglia in quel periodo si chiedeva se li avrebbe visti di nuovo. Il 24 luglio 1985 Ezechiele, insieme a un sindacalista locale, partecipò ad un incontro nella Fazenda Catuva ad Aripuanã nel vicino Mato Grosso con l’intenzione di persuadere i piccoli agricoltori lì impiegati a non prendere le armi contro i latifondisti, disobbedendo ad una richiesta da parte dei suoi superiori di prestare attenzione. Al ritorno, fu vittima di un’imboscata da parte di sette sicari armati di pistola, che lo colpirono oltre 50 volte. Prima di morire, sussurrò le parole: «Vi perdono». Morì il 24 luglio 1985, a 32 anni.