a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 15 gennaio la chiesa festeggia san Mauro, discepolo di san Benedetto, era figlio di un nobile romano, di nome Eutichio, ed ancora giovane fu offerto dal padre al santo e ne divenne presto il fidato collaboratore. Si dice che egli, durante l’ora dell’orazione in uno dei monasteri benedettini, abbia visto il diavolo tirare la tonaca di un monaco inducendolo a correre fuori dalla cappella. L’episodio che però lo rese celebre nella storia della chiesa cattolica, è quello della sua miracolosa obbedienza: un giorno, san Benedetto, vedendo il monaco Placido che per attingere acqua in un lago si era sporto troppo su quelle rive e che lo stesso era stato travolto dalle onde, ordina a Mauro di intervenire velocemente per salvare Placido. Mauro, curandosi solo della volontà di obbedire, procedette immediatamente verso la riva, prese il confratello per i capelli e lo ricondusse a terra, accorgendosi soltanto allora di aver camminato sulle acque. Ancora secondo alcune fonti della Chiesa, Mauro, alla partenza di san Benedetto, aveva predetto la morte di un avversario del monaco, e fu punito dallo stesso monaco per aver gioito della morte di un uomo. Mauro, vissuto poi a Montecassino, ne fu eletto priore ed amministratore e un giorno, guarì un fanciullo zoppo e muto ponendo su di lui la stola diaconale. Mandato in Francia dal suo maestro, ricevette un codice delle Regole e le preziose reliquie della Santa Croce, per questo i religiosi della congregazione benedettina francese, sorta nel 1618, presero il nome di Maurini; nel viaggio di ritorno si fermò a Vercelli, ove guarì il vescovo precipitato dalla torre; passando per le Alpi poi, sanò un domestico caduto da cavallo, ridiede la vista a un cieco e la vita ad un giovane. Operò nel suo monastero in modo da sviluppare la religiosità e negli ultimi anni della sua vita si dedicò solo alla preghiera e alla lettura. Infine, dopo che una pestilenza gli ebbe portato via molti dei suoi monaci, si ammalò anch’egli e morì; patrono degli zoppi e dei gottosi.
15 gennaio: san Romedio, visse tra il IV e il V secolo, erede di una ricca famiglia bavarese, signore di un castello nei pressi di Innsbruck e proprietario di saline nella valle dell’Inn; dopo un pellegrinaggio a Roma, donò tutti i suoi beni alla chiesa, ritirandosi in eremitaggio nella Val di Non in alcune grotte esistenti ancora oggi nei pressi del santuario. Lo seguirono due compagni, Abramo e Davide. Si narra che un giorno, dovendo recarsi a Trento per salutare Vigilio, allora vescovo della città, chiese a Davide di sellargli il cavallo: il discepolo tornò con la notizia che un orso aveva sbranato il cavallo. Romedio non si scompose e gli ordinò di sellare l’orso. Davide si fidò e vide che l’orso piegava il capo e si abbassava tranquillo per farsi mettere sella e briglie. Il santo così poté raggiungere Trento a cavallo dell’orso. La seconda leggenda narra proprio dell’ultimo incontro tra Romedio e Vigilio, in cui Romedio congedandosi dall’amico, gli dice che quando sentirà suonare la campanella della sua Chiesa saprà che lo sta avvertendo della sua dipartita. La leggenda narra che così accadde e che Vigilio, al suono della campanella, si raccolse in preghiera con tutta la città di Trento per la morte del santo.
15 gennaio: san Serafino di Sarov (al secolo Prochor Mošnin), nacque a Kursk (Russia) il 9 luglio 1759, da una famiglia di mercanti. All’età di 10 anni si ammalò gravemente; durante la malattia ebbe una visione durante la quale la Madre di Dio gli promise la guarigione. Alcuni giorni dopo, l’icona miracolosa della Madre di Dio di Kursk venne portata in processione per la città; a causa del maltempo la processione venne accorciata e deviata nei pressi della casa natale di Prochor. La madre avvicinò il piccolo all’icona, e questi fu guarito nel giro di poco tempo. Fin dalla più giovane età Prochor amava frequentare la Chiesa, ritirarsi in preghiera e leggere le biografie dei santi. All’età di 18 anni Prochor decise di diventare monaco, con la benedizione della madre, lasciò la casa paterna ed entrò nel monastero di Sarov. Fin suo ingresso in monastero, Serafino si distinse per il proprio comportamento ascetico. Quando nel 1786, a 27 anni prese l’abito monastico, ricevette il nome di Serafino. Poco tempo dopo venne ordinato ierodiacono. Serafino trascorreva quasi tutto il suo tempo in chiesa, ad eccezione di brevi periodi di riposo. L’incessante preghiera e l’ascesi vennero ricompensati con visioni di creature angeliche. Nel 1793 Serafino fu ordinato ieromonaco. Alla morte del suo padre spirituale, dopo essere stato ordinato sacerdote, ottenne il permesso di ritirarsi in solitudine nella foresta attorno al monastero su di un’altura, da lui chiamata “Monte Athos”. Qui restava per tutta la settimana, tornando al monastero solo per partecipare agli uffici liturgici festivi. In seguito iniziò a ritirarsi nel suo “lontano eremitaggio”, la fitta foresta lontana circa 5 chilometri dal Monastero di Sarov. Qui si perfezionò, purificandosi nell’ascesi. La vita isolata in un angolo remoto della foresta esponeva Serafino al rischio di essere attaccato da animali selvatici o da briganti. Un giorno, mentre lo Starets raccoglieva della legna, un gruppo di briganti lo assalì. Nonostante Serafino fosse di costituzione robusta ed armato d’ascia, non cercò di difendersi di fronte alla minacce dei malfattori: lasciò cadere l’accetta a terra, mise le braccia sul petto in forma di croce e si arrese a loro. Fu percosso a sangue, colpito più volte con bastoni e preso a calci, fino a perdere conoscenza. I suoi aggressori smisero di seviziarlo solo quando lo pensarono morto. Quando, dopo qualche tempo, i malfattori furono processati, Serafino invocò per loro clemenza. Le percosse e le ferite lasciarono un segno permanente sul corpo dello starets, che rimase invalido e claudicante per il resto della vita. La vita di Serafino fu poi caratterizzata da un periodo di profonda ascesi, con giorni interi trascorsi in ginocchio in preghiera su una roccia, e da notti all’aperto nel folto del bosco. Il santo pregò ininterrottamente per mille giorni e notti, le mani levate al cielo. Fu un’apparizione della Madre di Dio, avvenuta verso il termine dell’esistenza terrena di Serafino, a convincere lo starets a dedicarsi alla cura spirituale dei fedeli. Migliaia di persone di ogni estrazione e condizione si recavano da Serafino, che arricchì l’esistenza e l’anima di innumerevoli persone attraverso i suoi tesori spirituali, frutti di una vita di preghiera e ascesi. Chiunque lo andasse a trovare, veniva da lui ricevuto con un profondo inchino: benedicendo i suoi figli spirituali, Serafino baciava loro le mani, paternamente. Non era necessario che chi lo visitava raccontasse la propria vita allo starets, perché Serafino aveva il dono di vedere dentro l’animo di ciascuno. Nell’ultima apparizione della Madre di Dio, gli fu predetta la sua morte. Morì a Sarov il 2 gennaio 1833.