Oggi 18 maggio la chiesa festeggia san Giovanni I, 53º papa della Chiesa cattolica; nacque a Firenze o Siena, fu ordinato nel clero di Roma. Successe a papa Ormisda, il 15 agosto 523, e governò la Chiesa per soli 3 anni. Durante il suo pontificato introdusse il nuovo calendario contando gli anni dalla nascita di Cristo, consigliato dal monaco Dionisio il Piccolo. Le uniche informazioni di cui siamo in possesso su di lui, anche se molto vaghe, riguardano un suo viaggio a Costantinopoli, un viaggio che sembra avere avuto risultati di grande importanza e che fu la causa della sua morte. Nel 523, l’imperatore bizantino Giustino I, nel suo zelo per l‘ortodossia cristiana, aveva promulgato un severo editto contro gli ariani, costringendoli, fra le altre cose a restituire ai cristiani le chiese che avevano occupato. Teodorico, re degli Ostrogoti e d’Italia, difensore convinto dell’arianesimo, si risentì per queste misure dirette contro i suoi correligionari d’oriente. Fu inoltre dispiaciuto nel vedere i progressi verso una comprensione reciproca tra la Chiesa cristiana e quella greca, vedendola come una forma di segreto dialogo tra i senatori romani e la corte bizantina per la restaurazione dell’autorità imperiale in Italia. Agli inizi del 525, per fare pressione sull’imperatore e costringerlo a moderare la sua politica di repressione nei confronti degli eretici, Teodorico gli inviò un’ambasciata composta da ecclesiastici e senatori romani: Ecclesio, vescovo di Ravenna, Eusebio, vescovo di Fano, Sabino, vescovo di Capua, i senatori Teodoro, Importuno ed Agapito, il patrizio Agapito Conti. Giovanni I fu costretto, sotto la minaccia di una rappresaglia nei confronti dei cristiani d’occidente, ad assumersi la responsabilità dell’ambasciata. Inoltre, gli impose anche un secondo compito: fare in modo che l’imperatore ritirasse l’Editto del 523 e di esortarlo a far ritornare all’arianesimo gli ariani convertiti. Ma è scontato che il papa potesse solo consigliare Giustino ad usare gentilezza e discrezione verso gli ariani, la sua posizione come capo della Chiesa gli impediva di spingere l’imperatore in favore dell’eresia. Giovanni I quando giunse in oriente, gli abitanti di Costantinopoli si radunarono sulle strade in gran massa. Giustino, per omaggiarlo, quando lo incontrò si prostrò, e, poco tempo dopo, si fece incoronare dal papa. Tutti i patriarchi orientali fecero a gara per manifestare la loro comunione nella fede col pontefice; solamente Timoteo di Alessandria, che già si era mostrato ostile al Concilio di Calcedonia, si tenne a distanza. Infine, il papa, esercitando il suo diritto di precedenza su Epifanio, patriarca di Gerusalemme, officiò, il 19 aprile 526, solennemente nella Chiesa di Santa Sofia la messa pasquale seguendo il rito latino. Subito dopo fece ritorno ad occidente. Se questa accoglienza di Giovanni I da parte dell’imperatore, del clero, e dei fedeli d’oriente prova che stava esercitando i suoi doveri di pastore supremo della Chiesa, il sentimento fortemente contrariato di Teodorico nei suoi confronti al suo ritorno è una prova altrettanto evidente. Teodorico, infuriato nel vedere il partito nazionalista che riprendeva vigore in Italia, si era appena macchiato le mani del sangue di Severino Boezio, il grande filosofo, e di Simmaco suo suocero. Era, inoltre, irritato nei confronti del papa la cui ambasciata aveva ottenuto un esito molto diverso da ciò che lui desiderava. Non appena Giovanni I, di ritorno dall’oriente, sbarcò in Italia, Teodorico lo fece arrestare ed incarcerare a Ravenna. Indebolito dalle fatiche del viaggio, e sottoposto a severe privazioni, Giovanni morì poco tempo dopo in prigione. Morì il 18 maggio 526.
18 maggio: san Venanzio di Camerino, nacque a Camerino nel 235 d.C., da una nobile famiglia della classe senatoria romana di Camerino. I genitori, per salvarlo dalle feroci persecuzioni contro i cristiani dell’imperatore Massimino, lo affidarono ancora piccolo ad alcuni eremiti nascosti tra le montagne, lasciò tutte le comodità in cui era vissuto ed andò a vivere presso il prete Porfirio. Venanzio così crebbe forte nella fede ed appena adolescente volle dedicarsi all’apostolato ed alle opere di carità noncurante della minaccia incombente delle ricorrenti persecuzioni. Venne ricercato dalle autorità pagane della città e minacciato di tormenti e di morte se non fosse ritornato al culto degli dei, in esecuzione degli editti imperiali. Venanzio adolescente per età, ma dalla forte personalità per la fede ricevuta, si rifiuta e quindi viene sottoposto a flagellazioni, pene di fumo, fuoco, eculeo, ne esce sempre incolume e per questo raccoglie conversioni fra i pagani curiosi e gli stessi persecutori. Resta imprigionato e viene ancora tormentato con i carboni accesi sul capo, gli vengono spezzati i denti e mandibola, gettato in un letamaio, Venanzio resiste ancora, allora viene dato in pasto a cinque leoni affamati, ma questi gli si accucciano inoffensivi ai suoi piedi. Ancora incarcerato, può accogliere ammalati di ogni genere che gli fanno visita ammirati ed imploranti, ed egli ridona a loro la salute del corpo e dell’anima, convertendoli al cristianesimo. Ormai esasperato, il prefetto della città lo fa gettare, per tre volte, dalle mura di Camerino, ma ancora una volta lo ritrovano illeso, mentre canta le lodi a Dio, perciò è invocato quale protettore delle cadute. Viene legato e trascinato attraverso le sterpaglie della campagna e anche in questa occasione opera un prodigio, facendo sgorgare una sorgente da uno scoglio per dissetare i soldati, operando così altre conversioni. Alla fine, il 18 maggio 251, sotto l’imperatore Decio o nel 253 sotto l’imperatore Valeriano, viene decapitato insieme ad altri dieci cristiani. Mori il 18 maggio 251, a 15 anni; patrono di Camerino.
18 maggio: san Felice da Cantalice, nacque a Cantalice (Rieti) nel 1515 circa, figlio di poveri, ma onesti contadini. Quando aveva 8 anni il padre, costretto dalla necessità, lo mandò a fare il pastore presso il nobile Marco Tullio Pichi di Cittaducale. Il fanciullo, con la sua vita di penitenza e preghiera e assiduità quotidiana alla Messa, s’impose all’ammirazione del padrone, che volle dargli alloggio nel suo palazzo per essere di esempio ai suoi figli; gli stessi compagni di lavoro, che in un primo tempo lo deridevano, finirono con il seguirne l’esempio. Felice fino ai 30 anni non seppe distaccarsi dalla vita agreste. Nel 1533, dopo aver fatto distribuire quanto gli apparteneva ai poveri, Felice chiese di essere accolto nel convento dei cappuccini presso il Santuario di Santa Maria del Monte di Cittaducale. Fu ammesso al noviziato di Fiuggi, dove in breve tempo divenne modello di virtù per tutti. Fu colpito da una lenta febbre e da un indebolimento generale che lo ridussero in fin di vita, ma si rimise e il 18 maggio 1543 poté consacrarsi a Dio con i tre voti di obbedienza, povertà e castità. Dopo la professione religiosa dimorò nel convento di Tivoli, di Viterbo e dell’Aquila e, dal 1547, in quello romano di San Niccolò de Portiis, ai piedi del Quirinale. Nel suo ufficio di questuante di pane, poi di vino e olio, che raccoglieva per aiutare la sua comunità, i poveri e i nobili decaduti, durato 40 anni, si aggirò per le strade di Roma con atteggiamento umile e con la corona del rosario in mano; si faceva chiamare “l’asino dei Cappuccini”. Papa Sisto V, tutte le volte che lo incontrava, gli chiedeva per carità una pagnottella che mangiava metà a pranzo e metà a cena. Non avendone delle bianche, una volta Felice gliene diede una bigia dicendogli: «Contentatevi, Padre Santo, siete frate anche voi!». San Filippo Neri, suo amico, per Felice ebbe una venerazione del tutto singolare. Lo riteneva la persona più santa di Roma e quando lo incontrava per via era capace di chiedergli ora la benedizione, ora una fiasca di vino cui s’attaccava tra le risa bonarie dei passanti. In compenso gli metteva sul capo il suo cappello. Papa Gregorio XIII aveva scomunicato gli abitanti di Cantalice perché avevano assalito il palazzo vescovile di Cittaducale e percosso il vescovo, quando lo seppe, Felice digiunò e macerò il suo corpo, poi si recò dal Papa per implorare il perdono ai suoi compaesani. Munito di lettere che concedevano il perdono e la riconciliazione, egli fu accolto nel suo paese natale con vivi segni di riconoscenza. In quell’occasione i parenti gli prepararono una buona cena, ma egli preferì mangiare delle fave fresche che una sua cognata, dietro sua insistenza, andò a raccogliere nell’orto nonostante fosse fuori stagione. Uno dei miracoli più famosi, fu quando rigenerò un allevamento di bachi da seta, marciti a causa di una malattia infettiva, Felice portò in casa dell’allevatore alcune foglie bagnate e l’acqua, invece di uccidere i bachi, li moltiplicò e ridiede loro vita e proprio per questo Felice è invocato come protettore degli allevatori di bachi da sera (bachicultori). Il 30 aprile 1587 si ammalò gravemente. Morì il 18 maggio 1587.