Oggi 25 ottobre la chiesa celebra san Gaudenzio di Brescia, nacque a Brescia nel IV-V secolo. Dotato di una eccellente preparazione culturale, umanistica e religiosa, ci ha lasciato una serie di Trattati (i suoi sermoni e anche parte del suo epistolario), che confermano la sua fama di uomo dotto e che ci raccontano qualcosa sulla sua vita, inviati ad un meritevole concittadino che perché malato, non poteva recarsi ad ascoltarlo. Gaudenzio, per la suo umiltà, pensava di svolgere il suo ministero unicamente attraverso la predicazione. Verso il 386 intraprese un viaggio in Terra Santa e attraversando la Cappadocia si fermò a Cesarea in un monastero presieduto da due nipoti di san Basilio, dalle quali ricevette in dono reliquie dei quaranta martiri di Sebaste. Mentre si trovava in Oriente, morì a Brescia il vescovo Filastrio e clero e popolo elessero come successore Gaudenzio. I bresciani allora mandano in Palestina una delegazione per farlo rientrare al più presto. Lui accetta con qualche difficoltà, perché si considera scarso come scrittore di teologia, mentre questo all’epoca è compito fondamentale di ogni vescovo, con tanti punti di fede da precisare, con la varietà di dottrine e di dottrinari che ci sono in giro. Sant’Ambrogio e gli altri vescovi confinanti approvarono tale designazione e alla delegazione bresciana incaricata di raggiungerlo affidarono delle lettere in cui pregavano i vescovi orientali di negargli la comunione nel caso non avesse accettato. Fu consacrato nel 390 dallo stesso sant’Ambrogio, il quale tenne il discorso d’occasione. Fu l’ottavo vescovo di Brescia. Lui poi si recò a Milano e fu invitato da Ambrogio a rivolgere al popolo due discorsi dei quali ci rimane solamente il secondo, il De Petro et Paulo, tenuto il giorno della festa dei due Apostoli. Negli anni 400-402 egli consacrò la chiesa denominata Concilium Sanctorum (Concilio dei Santi, cioè riunione dei testimoni di Cristo), e vi pose le reliquie di san Giovanni Evangelista, degli apostoli Andrea e Tommaso e dell’Evangelista Luca. Nel 406 papa Innocenzo I e il Concilio romano da lui radunato mandarono a Costantinopoli una delegazione di 5 vescovi, tra cui Gaudenzio, per costringere Arcadio a esaminare la causa di Giovanni Crisostomo, vescovo di Costantinopoli, costretto all’esilio dall’imperatrice Eudossia. Ma l’iniziativa non ebbe successo; comunque il Crisostomo in una lettera espresse sentimenti di ammirazione e di ringraziamento al vescovo bresciano. Morì alla fine del 410 o all’inizio del 411.
25 ottobre: santi Crispino e Crispiniano, nativi nel III secolo. Stando a quanto si dice nei racconti agiografici, erano due fratelli di origine romana appartenenti ad una famiglia altolocata che ad un certo punto della loro vita decisero di farsi cristiani e di dedicarsi al Signore diffondendo il Vangelo e così, secondo la tradizione, di giorno predicavano e pregavano Gesù Cristo mentre di notte lavoravano per vivere. Come mestiere scelsero, umilmente, di fare i calzolai. I due cristiani vengono inviati, da Roma nella Gallia Belgica, come missionari, per diffondere la fede cristiana e stabilirono la loro dimora a Soissons, dove, sempre stando ai racconti agiografici, fecero tanti convertiti ed ottennero molte conversioni. Dopo alcuni anni di soggiorno in Francia, nel 287, furono scoperti e condotti davanti al Prefetto del Pretorio, Rizio Varo, acerrimo nemico del cristianesimo. Furono sottoposti a torture ma poiché le sopportarono con molta fermezza e non rinunciarono alla fede cristiana. In un eccesso d’ira per il fallimento, il prefetto si sarebbe ucciso gettandosi nel fuoco. L’imperatore Massimiano, per vendetta, condannò i due giovani cristiani a morte e decapitati. Narra la leggenda che quando ormai l’impero romano stava crollando ed i contadini fuggivano all’incalzare delle orde di Attila, Crispino e Crispiniano una notte di Natale, tremanti di freddo, bussarono alla porta di una misera casetta di Crespy en Valois. Comparve una donna in lacrime, con voce rotta dai singhiozzi, narrò che pochi giorni prima, suo marito era stato ucciso dai Vandali. Ora le rimaneva solo un bambino di due anni che piangeva in una culla. I due santi, commossi, andarono ad abbattere un albero nel bosco vicino e intagliarono due rozzi sandaletti che posarono davanti al focolare spento. Poi si inginocchiarono in preghiera. Ed ecco che miracolosamente i trucioli che avevano gettato nel camino si misero a danzare e a brillare. Non erano più trucioli di legno, ma pepite d’oro; patroni dei calzolai.
25 ottobre: beato Carlo Gnocchi, nacque a San Colombano al Lambro (Milano) il 25 ottobre 1902. Rimasto orfano del padre all’età di 5 anni, si trasferisce a Milano con la madre e i due fratelli, che di lì a poco moriranno di tubercolosi. Carlo crebbe in un ambiente molto devoto e fervente. Nel 1925 viene ordinato sacerdote dall’arcivescovo di Milano, Eugenio Tosi. Il primo impegno apostolico del giovane Carlo è quello di assistente d’oratorio: prima a Cernusco sul Naviglio, poi nella parrocchia di San Pietro in Sala, a Milano. Raccoglie stima, consensi e affetto tra la gente tanto che la fama delle sue doti di ottimo educatore giunge fino in arcivescovado: nel 1936 il cardinale Ildefonso Alfredo Schuster lo nomina direttore spirituale di una delle scuole più prestigiose di Milano: l’Istituto Gonzaga dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Sul finire degli anni Trenta, sempre il cardinale Schuster gli affida l’incarico dell’assistenza spirituale degli universitari della Seconda Legione di Milano, comprendente in buona parte studenti dell’Università Cattolica e molti ex allievi del Gonzaga. Nel 1940 l’Italia entra in guerra e molti giovani studenti vengono chiamati al fronte. Carlo si arruola come cappellano volontario nel battaglione “Val Tagliamento” degli alpini, destinazione il fronte greco albanese. Terminata la campagna nei Balcani, nel 1942, don Carlo riparte per il fronte, questa volta in Russia, con gli alpini della Divisione Tridentina. Nel gennaio del 1943 inizia la drammatica ritirata del contingente italiano: Carlo, caduto stremato ai margini della pista dove passava la fiumana dei soldati, viene miracolosamente raccolto su una slitta e salvato. È proprio in questa tragica esperienza che, assistendo gli alpini feriti e morenti e raccogliendone le ultime volontà, matura in lui l’idea di realizzare una grande opera di carità che troverà compimento, dopo la guerra, nella Fondazione Pro Juventute. Ritornato in Italia nel 1943, Carlo inizia il suo pellegrinaggio, attraverso le vallate alpine, alla ricerca dei familiari dei caduti per dare loro un conforto morale e materiale. In questo stesso periodo aiuta molti partigiani e politici a fuggire in Svizzera, rischiando in prima persona la vita: lui stesso viene arrestato dalle SS con la grave accusa di spionaggio e di attività contro il regime. È liberato grazie all’intervento del cardinale Ildefonso Alfredo Schuster. A guerra finita, Carlo sentì come suo dovere di accorrere in aiuto di quella parte dell’infanzia che era stata colpita più duramente. A partire dal 1945 comincia a prendere forma concreta quel progetto di aiuto ai sofferenti appena abbozzato negli anni della guerra: viene nominato direttore dell’Istituto Grandi Invalidi di Arosio (Como) e accoglie i primi orfani di guerra e i bambini mutilati. Inizia così l’opera che lo porterà a guadagnare il titolo di “padre dei mutilatini”. Il 28 febbraio 1956 con un crocifisso fra le mani, donatogli dalla madre anni prima, Carlo spirò. Morendo fece l’ultimo suo gesto profetico, donò le sue cornee a due ragazzi non vedenti, ospiti della sua fondazione, quando in Italia il trapianto di organi non era ancora disciplinato dalla legge. Il doppio intervento, eseguito dal professor Cesare Galeazzi, riuscì perfettamente, sollevando grande clamore non solo tra l’opinione pubblica, ma anche nel mondo dei giuristi e dei teologi: fu grazie a don Gnocchi che il Parlamento italiano approvò le prime norme sui trapianti d’organo, mentre sul versante morale, papa Pio XII, nell’Angelus della domenica successiva alla morte, lodò il generoso gesto, ponendo a tacere qualsiasi osservazione contraria o dubitativa. Morì il 28 febbraio 1956.