a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 5 ottobre: santa Faustina Kowalska (al secolo Helena Kowalska), nacque il 25 agosto 1905 a Głogowiec (Polonia), terza di dieci figli, da una povera e devota famiglia di contadini. Fin dall’infanzia si distinse per la devozione, per l’amore alla preghiera, per la laboriosità, per l’obbedienza e per una grande sensibilità verso la povertà umana. La sua vocazione religiosa si manifestò fin dall’età di 7 anni. Poté frequentare una scuola solo per poco più di tre anni. Ancora adolescente lasciò la famiglia per lavorare come domestica ad Aleksandrów e a Łódź provvedendo così al proprio sostentamento e aiutando la famiglia. A 18 anni chiese ai genitori il permesso di entrare in convento, ma la famiglia necessitava del suo aiuto e quindi non acconsentì. Faustina cercò di ubbidire ai genitori e partecipò alla vita mondana trascurando le ispirazioni interiori della grazia. Subito dopo si decise per la vita religiosa. Dopo essere stata respinta da molti conventi, finalmente, il 1 agosto 1925, fu ammessa nella Congregazione delle Suore della Beata Vergine Maria della Misericordia a Varsavia, prendendo il nome di Maria Faustina. Il 30 aprile del 1926 iniziò il noviziato Nella Congregazione visse tredici anni, soggiornando in diverse case, in particolare a Cracovia, Płock, e Vilnius. Svolse mansioni di cuoca, giardiniera e portinaia e osservò fedelmente la regola religiosa. Ma al tempo stesso è destinataria di visioni e rivelazioni che i suoi confessori le suggeriscono di annotare in un diario. E tuttavia non crede che questi fatti straordinari siano un marchio di santità. Adottò uno stile di vita severo e i digiuni indebolirono la sua salute, già cagionevole. Si ammalò di tubercolosi che invase i polmoni e l’apparato digerente e dovette essere ricoverata due volte in un sanatorio vicino a Cracovia. Di carattere riservato, i devoti le attribuiscono un’intensa vita mistica: nel suo Diario scrive che Gesù le attribuisce l’appellativo di “Segretaria della Divina Misericordia”. Nel 1938 aggiunge di aver avuto un dialogo con Dio, in cui si lamenta del fatto che la sua congregazione non abbia nemmeno una santa, e riceve questa risposta: «Tu la sei». La morte la colse il 5 ottobre dello stesso anno a Cracovia, all’età di 33 anni.
5 ottobre: beato Alberto Marvelli, nacque il 21 marzo 1918 a Ferrara. Secondo di sette figli di una famiglia profondamente religiosa, ma anche impegnati nella politica, ecclesiale e carità. Nel 1930 la famiglia si trasferisce a Rimini dove Alberto frequenta l’oratorio salesiano e fece parte dell’Azione Cattolica della sua parrocchia, aumentando così la sua formazione religiosa, che avrà molta influenza nella sua vita spirituale. Nel 1933 muore improvvisamente il padre; nel mese di ottobre dello stesso anno ha iniziato a scrivere un diario, che è la storia della sua vita interiore, il suo percorso spirituale, la sua esperienza con Dio. La sua appartenenza all’Azione Cattolica arricchisce la sua spiritualità; nel 1935 è delegato diocesano; nel 1937 fa parte della Federazione dell’Università Cattolica Italiana e nel 1946 diventa presidente dei laureati cattolici. Nel 1941 si laureò in ingegneria meccanica all’Università di Bologna, poi iniziò a lavorare alla Fiat di Torino. Nel capoluogo piemontese avviò diverse iniziative: conferenze, pellegrinaggi, visite ai poveri con la Conferenza di San Vincenzo. L’Italia entra guerra e Alberto parte militare, praticando in caserma un intenso apostolato. Può cambiare molte cose: risveglia il senso della fede nei cuori di molti. Finisce la guerra e Alberto torna a Rimini quando il 1 novembre 1943 un terribile bombardamento distrugge la città. Alberto diventa l’operaio della carità soccorre i feriti, prendendoli dalle rovine, distribuisce ai poveri tutto ciò che ha e che può raccogliere, salva molti giovani dalla deportazione dei tedeschi. Dopo la liberazione di Rimini entrò nella prima giunta costituita dal locale Comitato di Liberazione come assessore ai Lavori Pubblici. Fu eletto capo della sezione autonoma del Genio civile e presidente del Consorzio idraulico. Ebbe il ruolo delicato di presiedere la commissione che distribuiva gli alloggi agli sfollati. Fu eletto consigliere comunale alle prime elezioni libere. Quando a Rimini rinacquero i partiti, si iscrisse alla Democrazia Cristiana. Nel 1945 entrò a far parte della “Società Operaia” fondata da Luigi Gedda. Fu presidente dei Laureati Cattolici, vicepresidente dei Giovani di Azione Cattolica, e membro delle Conferenze di San Vincenzo. Costituì una cooperativa di lavoratori edili, la prima cooperativa “bianca” nel suo territorio. La sera del 5 ottobre 1946, a 28 anni, rientrando in bicicletta da un comizio elettorale, è investito da un camion militare.
5 ottobre: beato, Bartolo Longo, nacque a Latiano (Brindisi) il 10 febbraio 1841. Fin da bambino si rivelò ricco di ingegno, vivace. Per gli studi scolastici fu mandato al collegio dei Padri Scolopi a Francavilla Fontana. Completò gli studi a Lecce e a Napoli, dove conseguì la laurea in Legge all’età di 23 anni. In quegli anni, a Napoli, soprattutto nell’ambiente accademico, vi era un forte anticlericalismo. Bartolo, dopo la lettura del libro Le Vie de Jesus del filosofo francese Ernest Renan, aderì alla contestazione anticlericale: giunse ad essere sacerdote spiritista. Tormentato da irrequietezza e depressione riuscì a risollevarsi grazie ad un suo amico del liceo, il professore Vincenzo Pepe, uomo profondamente religioso, che riuscì a strappare al suo amico la promessa di rivolgersi a padre Alberto Radente, un domenicano di fede molto profonda, per confessarsi. Quando si confessò, avvenne la sua conversione che lo portò a scelte radicali. Grazie alla preghiera del Rosario riuscì a rinunciare allo spiritismo e iniziò a condannarlo e a professare la sua fede cattolica. Nel 1864 si laureò in giurisprudenza, tornò al paese natio, abbandonò la professione di avvocato, si prodigò in opere assistenziali, fece voto di castità. Grazie alla divisione patrimoniale familiare, aveva ottenuto una rendita annua di oltre 5.000 lire, una elevata somma per l’epoca, che gli consentì di sostenere periodiche spese di ammalati e bisognosi. Per seguire questa vocazione ad aiutare i bisognosi, tornò a Napoli. Qui ebbe l’incontro decisivo per la grande opera a cui era chiamato, fu, nel 1872, nella casa di santa Caterina Volpicelli con la contessa Marianna De Fusco, donna impegnata in opere caritatevoli ed assistenziali. Alla contessa, vedova di soli 27 anni, serviva un amministratore per i beni De Fusco. Nell’autunno del 1872 si recò in Valle di Pompei per rinnovare i contratti con i coloni della contessa e un giorno, vagando per quei campi, in contrada Arpaia, Bartolo sentì una voce misteriosa che gli diceva: «Se propaghi il Rosario, sarai salvo!». E subito dopo udì l’eco di una campana che suonava l’Angelus di mezzogiorno; egli allora si inginocchiò sulla nuda terra a pregare, a quel punto ebbe chiara la missione da compiere. Iniziò così a progettare la costituzione di una “pia società” intitolata al Santo Rosario, da realizzarsi proprio lì, in quella valle abbandonata. Nei tre anni successivi tornò tra i pompeiani più volte per diffondere la devozione al Santo Rosario, ma ben presto si rese conto, che a tale scopo, gli occorreva un quadro della Madonna del Rosario. Il 13 novembre1875 si recò così a Napoli per acquistarne uno, ma per puro caso incontrò padre Radente che gli suggerì di andare al Conservatorio del Rosario di Portamedina e di chiedere a suor Maria Concetta De Litala un vecchio quadro del Rosario che egli stesso le aveva affidato anni prima, ma lo sgomento fu grande: la tela era corrosa dalle tarme e logorata dal tempo. Il 13 novembre 1875, l’immagine della Madonna giunse a Pompei, su un carretto guidato dal carrettiere Angelo Tortora e altre volte adibito al trasporto di letame. Nel 1876, su proposta del vescovo di Nola Giuseppe Formisano, iniziò la campagna per costruire un Santuario a Pompei. Intorno a tale costruzione nacque una città mariana, la nuova Pompei, con tipografia, case, ospedali, posta e ufficio per il telegrafo e una stazione ferroviaria. Alla fine della sua vita visse accanto alla basilica presso i suoi bambini, in una stanza piccola e semplice, pregando il rosario quasi ininterrottamente. La contessa De Fusco morì il 9 febbraio 1924. Ciò provocò giorni di terribile sofferenza a Bartolo Longo che, per sfuggire alle possibili ritorsioni da parte degli eredi della nobildonna, si trasferì prima a Napoli, presso il nipote ingegnere, poi a Latiano. Il 23 aprile 1925, dopo molte sollecitazioni da parte dei pompeiani, Bartolo tornò a Pompei. E lo fece come quando vi era giunto per la prima volta nel 1872: senza possedere più nulla, ma stavolta trovando una città in festa ad aspettarlo. Bartolo Longo morì poverissimo, potendo disporre soltanto del proprio lettino poiché tutto il mobilio dell’appartamento era stato inventariato e vincolato da un sequestro conservativo ottenuto contro di lui da parenti in agguato. Qui morì il 5 ottobre 1926, a 85 anni, pronunciando le parole: «Mio unico desiderio è vedere Maria che mi ha salvato e che mi salverà dal maligno».