a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 1 gennaio la chiesa celebra Maria Santissima Madre di Dio, è la prima festa mariana comparsa nella Chiesa occidentale. Originariamente la festa rimpiazzava l’uso pagano delle “strenae” (strenne), i cui riti contrastavano con la santità delle celebrazioni cristiane. Il “Natale Sanctae Mariae” cominciò ad essere celebrato a Roma intorno al VI secolo, probabilmente in concomitanza con la dedicazione di una delle prime chiese mariane di Roma: Santa Maria Antiqua al Foro romano. La liturgia veniva ricollegata a quella del Natale e il primo gennaio fu chiamato “in octava Domini”, in ricordo del rito compiuto otto giorni dopo la nascita di Gesù, veniva proclamato il vangelo della circoncisione, che dava nome anch’essa alla festa che inaugurava l’anno nuovo. Nel rito romano la solennità si celebra il 1 gennaio di ogni anno. Nella forma extra-ordinaria del rito romano la festa di seconda classe si celebra l’11 ottobre. L’origine della data, di per sé apparentemente strana in quanto lontana dal Natale, ha motivazioni storiche: l’11 ottobre 431, durante il Concilio di Efeso, venne definita la verità di fede della “divina maternità di Maria”, con il titolo mariano di Theotókos, così nel 1931, ricorrendo il XV Centenario del Concilio, papa Pio XI ne istituì la festa liturgica. Nella forma ordinaria del rito romano la solennità della Theotókos si celebra dall’ora vespertina del 31 dicembre a tutto il 1 gennaio di ogni anno a meno che l’Epifania, non essendo in determinate regioni festa di precetto, si celebri nella domenica che cade il 2 gennaio e, in tal caso, la solennità di Maria Santissima Madre di Dio termina dopo l’ora nona del 1 gennaio. La solennità di Maria Santissima Madre di Dio nell’Ottava di Natale celebra certamente la Divina Maternità di Maria, ma in un’ottica particolare che dipende dal giorno in cui essa viene celebrata, cioè il giorno ottavo ed ultimo del Natale del Signore: quindi, si può affermare sia che in tale Solennità viene indirettamente celebrata la conclusione dell’Ottava natalizia, sia che l’ultimo giorno dell’Ottava di Natale è celebrato sotto il caratteristico aspetto mariano della divina maternità.
1 gennaio: san Giuseppe Maria Tomasi, nacque a Licata (Agrigento) il 12 settembre 1649, figlio primogenito dei Principi di Lampedusa e Duchi di Palma di Montechiaro. Formato ed educato nella nobile casa paterna, dove non mancavano ricchezze, né virtù, diede prova di uno spirito molto aperto allo studio e alla pietà. Per questo, dai suoi genitori fu molto curata la sua formazione cristiana e la sua istruzione nelle lingue classiche e moderne. Ma il suo spirito aspirava, fin da fanciullo, a essere piccolo nel Regno di Dio. Coltivò questo desiderio nel suo cuore finché ottenne il consenso di suo padre per seguire la vocazione alla vita religiosa. Dopo aver rinunciato al principato, che gli apparteneva per eredità, cedette i suoi diritti patrimoniali e feudali al fratello minore Ferdinando, e fu ammesso nell’Ordine dei Chierici Regolari Teatini, fondato da san Gaetano da Thiene nel 1524. Fece la sua professione a Palermo il 25 marzo 1666. Nel nuovo stato di vita si poté dedicare meglio alla pietà e allo studio. La sacra liturgia era stata la sua attrazione fin da bambino. Già allora avrebbe voluto indossare ogni giorno il vestito del colore liturgico del giorno. Il canto gregoriano era fiorito ben presto sulle sue labbra, che esultavano di gioia cantando i salmi liturgici. A Roma il 23 dicembre 1673, Giuseppe Maria veniva ordinato sacerdote nella Basilica Lateranense. Qui, dalla sua ordinazione sacerdotale, per quasi 40 anni, si dedicherà, con intensa fecondità, alla pietà, all’esercizio umile e perseverante delle virtù, e agli studi assidui. Si impegnò, con spirito di fede, alla pubblicazione di rari libri liturgici e di antichi testi della sacra Liturgia, facendo così vedere la luce a molti tesori che fino allora erano stati nascosti nelle biblioteche. Le sue molte pubblicazioni di argomento liturgico motivarono il titolo che gli davano alcuni suoi contemporanei di Doctor Liturgicus. In verità, non poche norme che, sancite dall’autorità dei Romani Pontefici e dai documenti del Concilio Vaticano II, sono oggi in uso nella Chiesa, furono proposte da Giuseppe Maria, fra queste basti ricordare: la forma attuale della Liturgia delle Ore per la preghiera dell’Ufficio Divino; la distinzione e l’uso del Messale e del Lezionario nella celebrazione Eucaristica. A tutti era di esempio per la profonda umiltà, lo spirito di mortificazione e di sacrificio, la fedele osservanza religiosa, la mansuetudine, la povertà, la pietà, la filiale devozione alla Beata Vergine Maria. Aiutava i poveri, dava sollievo ai malati, sia in casa che nell’ospedale di San Giovanni in Laterano. In questo modo si univano e si armonizzavano in lui la sapienza e la carità. Clemente XI, che ammirava le sue virtù e la diffusa fama della sua dottrina, lo nominò cardinale, del titolo dei Santi Silvestro e Martino ai Monti, il 18 maggio 1712. Accettò il cardinalato soltanto per ubbidienza al mandato espresso dal Papa. Unì alla dignità cardinalizia tutte quelle virtù che lo distinguevano come religioso teatino; nulla mutò della sua precedente regola di vita. Per la sua corte e per il servizio della sua casa scelse, per motivo di carità, persone povere, deboli, claudicanti e con varie menomazioni fisiche. Nella sua chiesa titolare dei Santi Silvestro e Martino ai Monti non solo partecipava, con i chierici della sua famiglia, alle celebrazioni liturgiche dei Padri Carmelitani, ma anche si dedicava a insegnare ai fanciulli e agli altri fedeli il catechismo della dottrina cristiana. Ma tanta luce di buon esempio e di virtù brillò per poco tempo, a solo otto mesi del suo cardinalato, fu colpito da una violenta polmonite. Morì il 1 gennaio 1713; patroni dei liturgisti, dei cerimonieri e degli studiosi di liturgia.
1 gennaio: san Odilone di Cluny, nacque in Alvernia (Francia) verso il 962, da una nobile famiglia. Ancora in giovanissima età fu colpito da una paralisi alle gambe, ma guarì in seguito al ricorso alla Vergine, alla quale fu sempre devotissimo. Nel 991, a 29 anni, entrò nell’abbazia di Cluny, dove in breve tempo, molto rapidi dovettero essere i suoi progressi nella vita religiosa, molto brillanti dovettero apparire le sue doti agli occhi dell’Abate, se questi ritenne opportuno, nel maggio del 993, nominarlo suo coadiutore nel governo dell’abbazia, al quale succedette l’11 maggio 994. Nel monastero di Cluny che fu introdotta la riforma di Cluny, che rappresentò un ritorno al primitivo rigore della regola benedettina: silenzio continuo, confessione pubblica delle colpe, rigorose penitenze, molto lavoro manuale, il ripristino delle scuole, la pratica dell’ospitalità e delle elemosine. La riforma cluniacense per la sua salda unità fu accolta con favore e si propagò per tutta l’Europa cattolica. Cluny ebbe l’inestimabile fortuna di avere nei secoli X e XI una serie di abati santi: sant’Oddone, che consolidò la riforma approvata da papa Giovanni XI; il beato Aimaro e san Maiolo, che la diffusero. Odilone, che la difese per 56 anni. Monaco di grandi risorse e d’intensa attività, Odilone, fu il quinto abate, consolidò la riforma e la estese fino alla Spagna. Da ogni parte si faceva appello al suo zelo per la riforma dei monasteri, il che spiega i frequenti viaggi che fu costretto a intraprendere. Di grande austerità con sé stesso, Odilone nel suo governo si mostrò sempre con tutti di una tenerezza materna. Non mancarono confratelli severi che gli rimproverarono l’eccessiva dolcezza. A costoro rispondeva con un sorriso: «Preferisco essere punito per un eccesso di misericordia che di durezza». Ovunque esercitò il suo ministero, fu a tutti di edificazione con la sua grande umiltà. Nel 998 istituì la Commemorazione di tutti i fedeli defunti, per impegnare i fedeli viventi a compiere con la maggior cura e fervore il grande dovere della preghiera per i morti, ordinato dalla cristiana carità e dispose che in tutti i monasteri cluniacensi, il 2 novembre, dopo i vespri di Tutti i Santi, si celebrasse la memoria dei defunti e si pregasse per loro. Successivamente questa pratica si estese a tutta la Chiesa occidentale. Odilone soccorse sempre tutte le miserie del prossimo. Per soccorrere gli affamati si fece mendicante, ordinò la fusione dei vasi sacri, vendette gli ornamenti preziosi della sua chiesa, come la corona d’oro offertagli dall’imperatore sant’Enrico II, suo amico. Odilone esplicò pure notevole attività nel campo politico. Amico e consigliere di papi, imperatori e prìncipi, durante le continue guerre del tempo seppe svolgere un’abile opera di mediazione e di pace. Odilone era tenuto in tanta considerazione presso i suoi contemporanei che durante la nomina alla successione all’arcivescovado di Lione, i suffraganei lo elessero loro metropolita e gli ottennero da Roma persino il pallio. Il santo rifiutò l’episcopato, nonostante le insistenze di Giovanni XIX e di Benedetto IX. Odilone volle invece compiere ancora un viaggio a Roma per pregare sulle tombe dei santi Pietro e Paolo. I suoi ultimi anni furono contrassegnati da frequenti infermità. Appena si senti un pò meglio intraprese l’ultima visita ai monasteri, ma affranto dall’età e dalle malattie si fermò a Souvigny, dove morì la notte tra il 1048 e il 1049, dopo aver ricevuto i sacramenti disteso sopra un letto cosparso di cenere.
1 gennaio: san Vincenzo Maria Strambi, nacque a Civitavecchia il 1 gennaio 1745, verso i 15 anni, avvertì la chiamata al sacerdozio, e il 4 novembre 1762, nonostante le resistenze famigliari, entrò nel seminario di Montefiascone. Perfezionò gli studi presso il Collegio Nuovo di Roma, dei Padri Scolopi, specialmente nell’arte oratoria, di cui in seguito fu eccellente maestro. Durante il periodo seminaristico avvertì la vocazione alla vita consacrata. Nel corso degli esercizi spirituali, in preparazione al sacerdozio, fatti nel ritiro dei Padri Passionisti a Sant’Angelo in Vetralla nel dicembre del 1767 parlò con san Paolo della Croce, fondatore della Congregazione della Passione di Gesù Cristo. Tornato a Bagnoregio fu ordinato sacerdote il 19 dicembre 1767. Nel 1768, giovanissimo sacerdote, è accolto dallo stesso san Paolo. Ma prima ha dovuto superare grandi difficoltà suscitate dal padre che già a malincuore lo aveva visto partire per il seminario e che non riesce ad comprendere un colpo ancora più duro. Il padre scrive al fondatore manifestando tutto il suo disappunto. Si rivolge anche al cardinale Giacomo Oddi, vescovo di Viterbo, perché convinca figlio a lasciare il Monte Argentario (Grosseto) dove il giovane è già novizio con il nome di Vincenzo Maria. Ma inutilmente. Emessa la professione religiosa il 24 settembre 1769 Vincenzo inizia a predicare esercizi spirituali al clero e missioni al popolo per cui rivela spiccate attitudini. Nel 1773 è chiamato a Roma nella casa generalizia dei Passionisti con il compito di insegnante e direttore degli studenti teologi. Qui si fa servo di tutti, si adatta agli uffici più umili prestandosi anche nei lavori della cucina e dell’orto. Non vuole alcuna distinzione. Ha capacità straordinarie per confortare gli afflitti e per suscitare fervore e devozione nel cuore dei confratelli e dei fedeli. Nel 1801 Pio VII lo nomina vescovo di Macerata e Tolentino. Vincenzo corre da lui per manifestargli il desiderio di restare in convento e di proseguire nella vita di missionario itinerante. Ma il papa non cede. Vincenzo si rassegna. Consacrato il 26 luglio, il 31 parte per Macerata separandosi dai confratelli. A Macerata inizia subito il suo ministero che rinnoverà il volto della diocesi. Appena giunto visita i parroci, le carceri, l’ospedale, i monasteri; organizza una missione popolare alla quale partecipa lui stesso. Vive una vita austera e penitente. Povero, i poveri saranno la sua cura costante. Durante la visita pastorale ricusa feste e pranzi particolari. Per la chiesa intanto si addensano nubi minacciose. Nel 1805 Napoleone Bonaparte comincia ad occupare lo stato pontificio. Le truppe francesi entrano anche a Macerata. Richiesto di giurare fedeltà all’imperatore, Vincenzo rifiuta, dichiarandosi fedelissimo al papa. Viene condannato all’esilio. Il 28 settembre 1808 Macerata saluta piangendo il suo vescovo deportato prima a Novara e poi a Milano. La forzata lontananza del prelato dalla diocesi ebbe termine il 14 maggio 1814. Prima di giungervi si ferma ad Ancona dove si trova il papa Pio VII anche lui reduce dall’esilio. I due si abbracciano commossi. Il papa due giorni dopo passa a Macerata: saluta il vescovo e lo elogia per la sua fedeltà. Provato dalle sofferenze, dagli anni e dal lavoro, più volte ha chiesto al papa di poter tornare in convento per prepararsi, pregando, alla morte. Richiesta mai accolta. Alla fine Leone XII nel 1823 lo accontenta, ma lo vuole nella sua residenza, come suo consigliere e confessore. Il 21 novembre 1823 Vincenzo lascia Macerata, si sfila l’anello episcopale dicendo: «Vendetelo e datene il ricavato ai poveri». A Roma restò pochissimo tempo. Avendo offerto la vita per il papa gravemente ammalato, morì all’improvviso, di apoplessia, il 1 gennaio 1824, a 79 anni.
1 gennaio: san Fulgenzio di Ruspe (Fabius Claudius Gordianus Fulgentius), nacque a Thélepte (Tunisia) nel 467 circa, apparteneva alla ricca famiglia senatoriale romana dei Gordiani che si era stabilita a Cartagine, i genitori lo educarono secondo le usanze del tempo, facendogli apprendere anche la lingua greca. Anche se giovane venne presto incaricato dalla madre a gestire l’amministrazione dei beni familiari. Per le sue doti gli fu affidato l’incarico di procuratore delle imposte della sua provincia. Si era assicurato una vita agiata, dedita alla cura dei beni terreni e non priva di mondanità. La sua fede e l’amore per lo studio lo tenevano ben ancorato allo studio della Bibbia e fu proprio questa lettura a fargli nascere nel cuore una santa inquietudine per la sua condotta di vita. La conversione arrivò però solo dopo la lettura del commento al Salmo 36 di sant’Agostino, che lo convinse a darsi totalmente all’ascesi. Si decise a indossare l’abito monastico: dapprima rimase a vivere in casa dedicandosi alle comuni occupazioni familiari ed amministrative, e poi completando il dono di sé entrò nel monastero del vescovo Fausto. Attratto dalla solitudine perfetta del deserto attraverso la lettura delle opere di san Cassiano, viaggiò verso l’Egitto, ma fu distolto dal suo proposito per le eresie che serpeggiavano nella terra degli eremiti. Passò pellegrino per Roma e conobbe persone illustri con le quali instaurò successivamente dei rapporti epistolari. Fu ordinato vescovo a Ruspe (identificabile con Henchir-Sbia nell’odierna Tunisia), nel 502, ma venne esiliato due volte in Sardegna, poiché il re Trasamondo non voleva che vi fossero successori di vescovi deceduti, in modo da lasciare le sedi episcopali vacanti e mettere in crisi il cristianesimo non ariano. Fondò monasteri sia in patria che durante il periodo dell’esilio e fu sempre combattuto tra la vita cenobitica e il desiderio verso la totale solitudine. Il re Trasamondo non poteva ignorarlo, quindi lo richiamò a Cartagine e lo interrogò, rimandandolo successivamente in Sardegna per calmare i suoi sudditi ariani. Solo dopo la morte del re Ilderico, Fulgenzio poté far ritorno in Africa. Fino alla sua morte, fu padre e pastore del suo gregge, devolveva tutte le sue entrate ai poveri; si dedicò soprattutto alla preghiera ed a comporre le sue opere teologiche. Nelle opere teologiche difese l’ortodossia cattolica: la Trinità, l’incarnazione, il rapporto tra grazia e predestinazione. Morì a Ruspe il 1 gennaio 527.