a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 1 settembre la chiesa celebra la Beata Vergine Maria di Montevergine, è l’appellativo con cui si venera, nell’omonimo santuario a Mercogliano, il quadro raffigurante la vergine Maria seduta su un trono con un braccio il bambino Gesù, oltre al nome consueto è anche conosciuta come Madonna Nera o maggiormente come Mamma Schiavona, contrariamente a quanto può pensarsi, il culto della Madonna di Montevergine non è legato ad alcuna apparizione, ma solamente dalla volontà di un monaco eremita, san Guglielmo da Vercelli, di dedicare la propria vita alla preghiera tramite il culto di Maria, formando in poco tempo un vero e proprio ordine monastico. La storia dell’icona della Madonna di Montevergine è incerta: secondo la leggenda, il quadro sarebbe stato direttamente dipinto da san Luca, il quale avrebbe prima esposto a Gerusalemme il quadro, per poi essere trasferito prima ad Antiochia, quindi a Costantinopoli, infine a Napoli. Nell’VIII secolo però con la salita al trono di Michele Paleologo e l’inizio dell’iconoclastia, il fuggitivo re Baldovino II recise il capo della Madonna dal quadro per metterla in salvo. Dopo molti passaggi era giunta nelle mani di Caterina II Valois, sposa di Filippo di Taranto, ricevuta in eredità, per poi donarla ai monaci di Montevergine nel 1310, esponendola nella cappella gentilizia dei D’Angiò, dove volle essere sepolta. L’evangelista Luca, se si vuol credere a questa leggenda, sarebbe solo l’autore del capo della Vergine. Egli aveva conosciuto Maria e aveva osato ritrarla, ma sgomento, non aveva finito il viso, addormentatosi, l’aveva trovato il mattino dopo completato da un misterioso intervento divino. Caterina II prima di donarla a Montevergine fece terminare l’opera, si diceva, da Montano d’Arezzo. Nei secoli successivi si è discusso a lungo sull’attribuzione dell’opera. La prima vera valutazione storica dell’icona si ebbe soltanto durante il Concilio Vaticano II, negli anni sessanta, quando su ordine delle autorità ecclesiastiche un team di storici e critici analizzarono il quadro: ben presto la leggenda risultò totalmente infondata in quanto la data di donazione al santuario non poteva essere esatta perché Caterina II avrebbe avuto solamente dieci anni ed inoltre da uno scritto conservato nel monastero irpino, il quadro era già presente dalle fine del XIII secolo. Nel 1964 Giovanni Mongelli, padre della Congregazione di Montevergine, ipotizzò che l’opera potesse essere stata realizzata da Pietro Cavallino, o comunque dalla sua scuola, visti i numerosi elementi artistici tipico del pittore romano, come lo stile bizantino ed il modo di panneggiare, ma quest’ipotesi fu dettata anche dal fatto che Cavallini era stato spesso commissionato a realizzare opere dai D’Angiò, famiglia sicuramente a cui l’opera appartiene vista la presenza dei gigli angioini; nel 1997 padre Placido Maria Tropeano, ha però dichiarato che l’opera potrebbe essere anche attribuita a Montano d’Arezzo, ma che a seguito dei continui rimaneggiamenti abbia perso la sua fisionomia iniziale. Altra leggenda, anch’essa esclusa dagli storici, vuole che il quadro sia giunto a Montevergine perché il mulo che lo trasportava non avrebbe eseguito gli ordini del padrone e si sarebbe incamminato per la montagna giungendo fino al santuario. L’immagine della Madonna di Montevergine è stata realizzata su due tavole di pino tenute insieme da alcune sbarre nel retro ed ha una altezza di 4 metri e 30 per una larghezza di 2 metri e 10. La raffigurazione rappresenta la Madonna, seduta su un trono, con in braccio il bambino Gesù, posto sulla sua gamba sinistra ed il fanciullo tiene, nella sua mano destra, il manto della mamma: sia il capo del bambino che quello della Madonna sono aureolati, ma mentre nel primo caso è ancora presente una corona d’oro donata nel 1712 dal Capitolo di San Pietro in Vaticano, mentre nel secondo è assente a causa di un furto avvenuto nel 1799. Il volto della Vergine è di forma ovoidale e gli occhi sono in nero con la caratteristica di osservare nello stesso momento sia il cielo che il bambino che reca in braccio. Nella parte superiore del quadro sono presenti due angeli che volano sul bordo del trono, mentre altri sei si trovano ai piedi in segno di venerazione e preghiera.
1 settembre: san Giosuè, figlio di Nun, appartenente alla tribù di Efraim, secondo figlio di Giuseppe, è un personaggio dell’Antico Testamento, vissuto nel XII secolo a.C. Originariamente si chiamava Osea, ma Mosè del quale era uno dei più fedeli discepoli e al quale succedette nella guida del popolo ebraico, trasformò il suo nome in Giosuè, che significa “Jahvé salva”. Egli è nominato per la prima volta nel libro dell’Esodo (17,9-14), quando durante il lungo peregrinare nel deserto, il popolo ebraico fuggito dall’Egitto sotto la guida di Mosè, fu costretto ad ingaggiare battaglia con la tribù degli Amaleciti, da sempre nemici d’Israele. Mosè in quest’occasione, chiamò il suo fedele collaboratore e lo incaricò di combattere Amalek il loro capo, scegliendo gli uomini più validi; nel deserto del Sinai, Giosuè ingaggiò il lungo combattimento, mentre Mosè, Aronne e Cur assistevano dall’alto di una collina. Le sorti della battaglia si alternavano positivamente e negativamente, secondo se Mosè teneva alte le mani o le abbassava per la stanchezza; allora Aronne e Cur gli sostennero le braccia in alto fino al tramonto, quando Giosuè uscì vittorioso dalla battaglia. Ancora nell’Esodo è ricordato come unico accompagnatore di Mosè sul monte Oreb, quando Dio dettò i Dieci Comandamenti. Da quel momento, Giosuè ebbe il potere di dare gli stessi ordini impartiti da Mosè e di chiedere al sacerdote di consultare la volontà divina attraverso un oracolo. Mosè preparava così una nuova guida del popolo d’Israele, che si avvicinava ormai alla terra promessa, perché lui e tutti gli ebrei della precedente generazione per volere di Dio l’avrebbero solo intravista, morendo prima di raggiungerla. Giosuè fu accanto a Mosè nei momenti finali della sua lunga vita, quando il grande legislatore e guida d’Israele, pronunciò la benedizione solenne sulle dodici tribù discendenti dai figli di Giacobbe e quando a 120 anni, morì sul monte Nebo vedendo da lì la terra promessa. Nella Bibbia si inserisce a questo punto il libro di Giosuè, narranti le gesta del successore di Mosè nella conquista e nello stabilirsi del popolo d’Israele nella regione di Canaan, la terra promessa. Il popolo sotto la sua guida attraversò il fiume Giordano, preceduto dall’Arca dell’Alleanza sorretta dai sacerdoti e come successe con il Mar Rosso e Mosè, anche il Giordano che era in piena, si fermò, facendo passare all’asciutto la lunga fila di popolazione e animali. Dio con questo prodigio esaltò Giosuè davanti al popolo, come aveva esaltato Mosè e il popolo prese a venerarlo, così come aveva venerato Mosè. La presa della città di Gerico, fu ottenuta da Giosuè facendo procedere in processione l’Arca dell’Alleanza al suono delle trombe dei sacerdoti, e girando intorno alle mura della città per sette giorni; al termine del settimo giro, fece gridare tutto il popolo ebreo e suonare le trombe e le mura crollarono, permettendo così la sconfitta e la morte degli spaventati difensori di Gerico. L’entrata di Israele nella terra promessa era disegno di Dio; nulla vi si poteva opporre né altri uomini. Giunti ormai nella Palestina, Giosuè attuò la divisione del Paese fra le dodici storiche tribù, instaurando tutta la legislazione dettata da Mosè. Passò molto tempo in pace e Giosuè ormai vecchio e avanzato in età, convocò a Sichem, una grande assemblea popolare, pronunciò il discorso d’addio al popolo, facendo loro promettere fedeltà a Dio loro padre e guida suprema. Morì a 110 anni, la sua tomba è additata ancora oggi a Khirbet Tibuah a nord di Gerusalemme.
1 settembre: sant’Egidio abate, nacque ad Atene nel VI secolo, da una nobilissima famiglia. Viene rapito dalla culla ancora in fasce ad opera da alcuni diavoli, viene abbandonato in un bosco dove una cerva provvede ad allattarlo. Ritrovato e ricondotto a casa, viene educato (secondo le esigenze del suo rango) alle arti liberali, e diviene ben presto uomo coltissimo, ottimo oratore ed eccellente poeta. Esperto nelle materie scientifiche gli vengono attribuite delle opere di argomento medico. Si distingue particolarmente nello studio delle Sacre Scritture, cui lo spingeva uno spiccato spirito di pietà e il desiderio di conoscere la volontà di Dio. Rimasto solo dopo la morte dei genitori, segue l’invito del Vangelo vendendo il patrimonio ereditato e distribuendo il ricavato ai poveri. In cambio Dio gli concede il dono di operare miracoli. Un giorno incontra un malato che chiedeva l’elemosina. Si tolse il mantello, e con esso ricopre il povero, che istantaneamente guarisce. In seguito libera un indemoniato. Poiché la fama di queste opere aveva reso celebre il suo nome, per fuggire il pericolo della vana gloria, decide di allontanarsi dalla patria greca. In viaggio su una nave approda a Marsiglia, in Provenza dove avrebbe vissuto prima con san Cesareo, vescovo di Arles e poi, nella solitudine, accanto all’eremita Veredemio, ma poiché la fama dei miracoli lo seguiva anche lì, dove aveva guarito una donna per tre anni affetta dalla lebbra, si ritira ancor più all’interno del bosco, in una caverna difficilmente accessibile, dove viveva nella contemplazione di Dio, pregando e meditando, cibandosi di erbe selvatiche e del latte di una cerva che prodigiosamente ogni mattina si avvicinava a lui per offrirgli il dolce alimento. Il Signore volle però che l’eremita, pur nel folto del bosco, venisse glorificato. Alcuni arcieri della caccia reale inseguivano la cerva di Egidio, che cercava protezione ai piedi del santo. I cani si arrestano di fronte all’uomo di Dio, ma un cacciatore scaglia una freccia che colpisce il monaco al braccio. Senza lamentarsi o chiedere aiuto disse soltanto che voleva soffrire il dolore della ferita per partecipare in qualche modo al dolore che nella Passione, le ferite avevano procurato a Cristo. Il fatto fu riferito al re Carlo Martello che volle conoscerlo di persona. Egidio svelò al re un suo peccato occulto e ottenne da Dio la forza di confessarlo. Per questo il re lo pregò di permettergli di dimostrargli la propria riconoscenza: il santo chiese che nel luogo della spelonca venisse costruito un monastero, per accogliere quanti desideravano seguirlo nella vita di preghiera. Il monastero fu edificato in breve tempo e l’eremita fu ordinato sacerdote; i monaci accorsi vollero che divenisse loro Abate, adottando la regola benedettina. Negli ultimi anni di vita, dopo aver ricostruito due volte il monastero distrutto dalle incursioni dei Saraceni, volle recarsi a Roma a visitare le tombe degli Apostoli e porre il suo monastero sotto la protezione papale, ottenendo dal pontefice privilegi che sottraevano il cenobio ad ogni altra ingerenza. Morì il 1 settembre 725; patrono dei fabbri, disabili, eremiti