a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 19 novembre la chiesa festggia sant’Abdia, è il quarto dei profeti detti minori, dopo Osea, Gioele e Amos. Il suo scritto è l’unico composto di un solo capitolo, esattamente 21 versetti. Non sappiamo nulla sull’autore, che conosciamo soltanto il suo nome che vuol dire “servo di Yahweh”. Abdia ha qualcosa in comune con Giona e Naum, e cioè che tutte e tre questi profeti non si rivolgono a Israele o a Giuda, ma alle nazioni pagane intorno. Ciò è un’ulteriore conferma del fatto che il Dio di Israele non è mai stato un dio “tribale”, il Dio di un solo popolo, essendo fin dall’inizio il Creatore, e perciò Signore, sia dell’universo che di tutti gli uomini; Mosè stesso, a scanso di equivoci precisò che «Il Signore ama i Gentili» (Dt 33,3), intendendo con la parola “Gentili” tutti coloro che non erano appartenenti alla casa d’Israele. La visione profetica di Abdia è riferita a Edom (che era il soprannome di Esaù, il quale vendette il diritto di primogenitura al suo gemello Giacobbe per un piatto di lenticchie, racconto che troviamo in Genesi 25, 29-34). Abdia denuncia l’orgoglio e l’inimicizia di Edom nei confronti dei discendenti di Giacobbe (ovvero Israele), affermando che ciò sarebbe stato la causa della sua caduta. Il paese fu, infatti, prima devastato dai Babilonesi ed in seguito conquistato dai Nabatei. All’epoca dei Maccabei, nel 126 a.C., Giovanni Ircano incorporò gli Edomiti nella nazione ebraica. La famiglia degli Erodi era edomita, con la conquista romana della Palestina essi salirono al trono per regnare su Giuda. Perciò quando leggiamo del re Erode alla nascita di Gesù, dobbiamo pensare ad un re di origine edomita, più che israelita vera e propria. Dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C., la storia non ci parla più di questo popolo, confermando la veridicità del breve scritto di Abdia, nel quale possiamo cogliere anche degli insegnamenti universali. A Dio non piace né l’odio né l’orgoglio. L’orgoglio del cuore inganna e ci illude di poter arrivare a chissà quale posizione, ma la realtà è diversa, perché esiste un Dio che riporta con i piedi per terra chiunque si innalzi oltre il suo limite. Se da un lato Dio denuncia e punisce in maniera chiara l’orgoglio, dall’altro Egli si prende cura di coloro che gli appartengono, che hanno un cuore umile e che subiscono. Dio vede ogni cosa e la giustizia è Sua. Non solo: arriverà il momento in cui Cristo regnerà, e quello sarà il tempo della vera giustizia. Chiunque crede in Dio e in suo figlio Gesù attende la piena realizzazione di questa promessa confermata in Apocalisse 11,15. Attraverso la profezia su Edom, Abdia ci insegna il principio biblico che «Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili» (1Pt 5,5). Quando avremo la consapevolezza di essere insignificanti davanti alla potenza e alla gloria di Dio, ci affideremo solo a Lui e Dio ci verrà incontro donandoci la vita eterna.
19 novembre: sante Quaranta Donne Martiri di Eraclea con Annone diacono, nonostante che il racconto dei loro tormenti e del loro martirio, abbia tutti i segni della leggenda e dell’agiografia fantastica, sembra non ci siano dubbi sulla loro esistenza e sulla loro testimonianza di fede. Le quaranta donne sono ricordate dal calendario gotico, che le commemora il 19 novembre come martiri a Berea vicino Eraclea. Il racconto del loro martirio è stato riportato sin dal primo Martirologio Romano e dal Sinassario orientale di Costantinopoli, e la loro vicenda è stata ritenuta degna di fede da tutte le antiche fonti, come il Menologio di Basilio Porfirogenito. La Passio riporta come capo del numeroso gruppo di donne, il diacono Ammone, maestro e promotore della loro conversione al Cristianesimo. Al tempo dell’imperatore Costantino, era associato nella guida dell’Impero in Oriente Licinio Valerio Liciniano e la persecuzione contro i cristiani, cessata definitivamente con l’editto di Milano del 313 d.C. e firmato dai due imperatori, era ancora sporadicamente in atto; Licinio mandò come funzionario a Berea il suo messo Baudo, il quale appena giunto, accolse una denunzia contro Celsina priora e le quaranta vergini e vedove riunite con lei in comunità monastica. Celsina dopo un interrogatorio in cui finse di assoggettarsi ai voleri del funzionario pagano, si ritirò in preghiera, esortata a perseverare dal diacono Ammone loro guida spirituale. Durante il secondo interrogatorio e presente tutta la comunità delle monache, gli idoli si sbriciolarono e il sacerdote di Zeus, fu sollevato in aria da angeli di fuoco e mentre Annone e le 40 donne cristiane si ritiravano, egli precipitò sfracellandosi al suolo. Baudo infuriato, fece arroventare un elmo di bronzo e lo fece porre sul capo di Ammone, appeso alle macchine per la tortura; ma l’elmo volò via finendo sulla testa dello stesso Baudo, che fu prodigiosamente sollevato in aria, finché non chiese perdono ai martiri; poi se ne liberò inviando tutto il gruppo a Licinio in Eraclea, dove le vergini venerarono le reliquie di santa Gliceria martire, poi patrona della città. L’imperatore ordinò che venissero gettate tutte in pasto alle belve, ma gli animali non vollero toccarle e allora Licinio fece uccidere il diacono Ammone, le vergini capeggiate da Celsina e le vedove capeggiate dalla diaconessa Lorenza, massacrandoli a gruppi con raccapriccianti supplizi. La data del martirio, tenuto conto degli anni di governo degli imperatori Costantino e Licinio e dell’editto del 313, che metteva fine alla persecuzione, si può ritenere che sia avvenuto nel 312 o primi giorni del 313 stesso.
19 novembre: Servo di Dio Dolindo Ruotolo, nacque a Napoli il 6 ottobre 1882 da Raffaele Ruotolo, ingegnere e matematico, e da Silvia Valle, discendente della nobiltà napoletana e spagnola. La famiglia era numerosa e le entrate alquanto scarse, questo faceva sì che spesso nella sua casa si soffrisse la fame e mancassero persino vestiario e scarpe. Nel 1896, con la separazione dei genitori, Dolindo fu avviato con il fratello Elio alla Scuola Apostolica dei Preti della Missione. Nel 1899, Dolindo venne ammesso al noviziato. Il 1 giugno 1901, fece i voti religiosi e il 24 giugno 1905 venne ordinato sacerdote. Successivamente venne nominato maestro di canto gregoriano e professore dei chierici della Scuola Apostolica. La vita da sacerdote vincenziano fu intessuta da tanti episodi dolorosi. Dal 3 settembre 1907, fu vittima di una serie di errori e incomprensioni che lo portarono al giudizio dell’allora Sant’Uffizio. Il 29 ottobre 1907 fu richiamato a Napoli, intimato di non interessarsi più della faccenda e fu sospeso a divinis. Accusato d’essere un «eretico formale e dogmatizzante», andò a Roma per sottoporsi al giudizio del Sant’Uffizio: dopo quattro mesi di inchiesta, nei quali Dolindo non ritrattò, fu sospeso a divinis e costretto a sottoporsi a perizia psichiatrica, dalla quale risultò sano di mente. Ridatigli i sacramenti, fu inviato di nuovo a Napoli dove fu espulso dalla sua Comunità. Seguirono anni pieni di tormenti di ogni genere. Il 13 aprile 1908 fu convocato a Napoli dai superiori della congregazione, che lo espulsero e dovette accettare di essere esorcizzato e, considerato pazzo, fu oggetto di dolorosi attacchi da parte della stampa. Si trasferì a Rossano in Calabria e, l’8 agosto 1910, partì la richiesta di revisione, grazie anche all’aiuto di prelati amici, alcuni dei quali anche testimoni dei suoi doni soprannaturali. Nel 1910 venne finalmente riabilitato, dopo due anni e mezzo di sospensione, ma le sue tribolazioni non erano finite. Nel dicembre 1911, Dolindo venne nuovamente convocato dal Sant’Uffizio a Roma e nel 1921 subirà anche un processo, dove verrà condannato ed esiliato. Venne definitivamente riabilitato il 17 luglio 1937. Pur fra continui dolori ed incomprensioni, la sua vita di sacerdote, ormai diocesano, proseguì a Napoli, nella chiesa di San Giuseppe dei Nudi, di cui il fratello Elio fu parroco. Qui Dolindo fu l’ideatore dell’Opera di Dio e dell’Opera Apostolato Stampa. L’Opera, attraverso la stampa degli scritti di Dolindo, riuscì a far conoscere ovunque il suo insegnamento. Dolindo non amava le delicatezze del cibo e del vestiario, sopportava il freddo e la fame e fu visto camminare nella neve senza calzini ai piedi. Riceveva tutti, per tutti pregava, per tutti soffriva. Si avvicinava ai malati più infetti e li carezzava, li baciava e là dove il ribrezzo avrebbe in altri estinto la compassione in lui suscitava la pietà. Dolindo fu uno scrittore estremamente fecondo, i suoi scritti più importanti vanno dal monumentale “Commento alla Sacra Scrittura”, in 33 volumi, alle tante opere di teologia, ascetica e mistica. Nel 1960 iniziava un altro calvario per padre Dolindo, un ictus gli immobilizzò il lato sinistro, ma non riuscì a fermarlo. Dal suo tavolino continuava a scrivere alle sue “Figlie spirituali” sparse un pò dovunque. Don Dolindo si spense il 19 novembre 1970 all’età di 88 anni a causa di una broncopolmonite.