Oggi 26 agosto l a chiesa celebra san Melchisedek re di Salem, è una figura dell’Antico Testamento, e di lui si parla due volte: «Melchisedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abramo con queste parole: “Sia benedetto Abramo dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici” E Abramo gli diede la decima di tutto» (Gn 14,18-20). Così il libro della Genesi cita questo misterioso personaggio, vissuto verso il secondo millennio avanti Cristo, re cananeo di Salem, nome arcaico della futura città di Gerusalemme e capitale del re Davide, ed al tempo stesso sacerdote della divinità locale. I segni del pane e del vino, che Melchisedech presentò al patriarca Abramo, per il cristiano divennero segno dell’Eucaristia. Proprio in tale nuova luce l’episodio di Melchisedech acquista un nuovo significato rispetto a
quello originario. Per l’autore della Genesi infatti l’offerta di pane e vino ad Abramo ed alle sue truppe affamate, di passaggio nel territorio del re di Salem tornando da una spedizione militare contro i quattro sovrani orientali per liberare il nipote Lot, è intesa quale segno di ospitalità, di sicurezza e di permesso di transito. Abramo accettò il gesto di Melkisedech e ricambiò con la decima del bottino di guerra, così da attuare un sorta di patto bilaterale. La seconda citazione antico testamentaria è data dal Salmo 110,4, nel quale a proposito del re davidico si dice: «Tu sei sacerdote per sempre, al modo di Melkisedech», forse per assicurare anche al sovrano di Gerusalemme una qualità sacerdotale, differente dal sacerdozio levitino, in quanto Davide ed i suoi successori appartennero alla tribù di Giuda anziché a quella sacerdotale di Levi. È interessante evidenziare la simbologia che il re di Salem ha acquisito dalla successiva tradizione cristiana. Nel Nuovo Testamento la Lettera agli Ebrei (cap. 7) iniziò infatti ad intravedere in Melchisedech il profilo Gesù Cristo, sacerdote perfetto. Infatti l’autore di tale libro, volendo presentare Cristo come sacerdote in modo unico e nuovo rispetto all’antico sacerdozio ebraico, decise di ricorrere proprio all’antica figura di Melkisedech. Questo nome significa infatti “il Re, cioè Dio, è giustizia”, mentre “re di Salem” vuol dire “re di pace”. Si coniugano così nel re-sacerdote i due doni messianici per eccellenza: la giustizia e la pace. Rimarcando poi il fatto che Abramo si sia lasciato benedire da lui, riconoscendone perciò la supremazia, afferma implicitamente la superiorità del sacerdozio di Melkisedech rispetto a quello di Levi discendente di Abramo. Non resta così che concludere che Cristo, discendente davidico, è “sacerdote in eterno alla maniera di Melkisedech”, proprio come predetto dal Salmo 110. È dunque in questa luce che la tradizione cristiana non esitò a riconoscere nel pane e nel vino offerti dal re di Salem ad Abramo una profezia dell’Eucaristia
26 agosto: sant’Alessandro di Bergamo, nacque a Tebe nel III secolo. Secondo la tradizione fu il vessillifero della leggendaria della Legione Tebea, composta da soldati della Tebaide e comandata dal generale romano san Maurizio. Secondo la tradizione, la centuria di cui Alessandro era comandante fu spostata intorno all’anno 301 dalla Mesopotania alle regioni occidentali, prima a Colonia, poi a Brindisi, sino a giungere in Africa. Durante il lungo viaggio dei legionari, diverse persecuzioni contro i cristiani furono ordinate dall’imperatore Massimiano, ma i soldati si rifiutarono di eseguire gli ordini pagando con la decimazione, avvenuta ad Agaunum, nell’odierna Saint Maurice-en-Valais che si trova nel cantone Vallese, in Svizzera. Tra gli scampati al massacro, Alessandro riparò con alcuni suoi compagni in Italia, ma fu imprigionato a Milano (nel luogo dove oggi sorge piazza di Sant’Alessandro) e qui si rifiutò di abiurare alla fede cristiana come ordinatogli dall’imperatore Massimiano. Fuggito dalla prigione, grazie all’aiuto di san Fedele di Como e del vescovo san Materno di Milano, sulla strada verso Como, secondo la leggenda compì il miracolo di risuscitare un defunto, dove fu riconosciuto, catturato e riportato davanti a Massimiano, Alessandro abbatté l’ara preparata per il sacrificio a dei romani, facendo infuriare l’imperatore, che lo condannò a morte per decapitazione; la leggenda vuole che il carnefice non osasse colpirlo perché il capo di Alessandro gli appariva grande come una montagna e, per lo spavento, gli si sarebbero irrigidite le braccia: la stessa sorte sarebbe toccata ad altri soldati chiamati ad eseguire la condanna; pertanto fu rimesso in carcere, a morire di stenti, ma riuscì nuovamente a fuggire. Alessandro passò miracolosamente l’Adda all’asciutto e si nascose in un bosco vicino a Bergamo, presso il Ponte della Morle, da un patrizio locale, il principe Crotaceo. A Bergamo Alessandro iniziò un’opera di conversione alla fede cristiana degli abitanti della città, tra cui i futuri martiri santi Fermo e Rustico, parenti di Crotacio. Fu presto scoperto da alcuni soldati romani che lo condussero in catene a Bergamo, dove fu condannato alla decapitazione, che questa volta fu eseguita senza inconvenienti. Morì il 26 agosto 303; patrono di Bergamo.
26 agosto: sant’Oronzo di Lecce, nacque con il nome Publio a Rudiae, antica località nei pressi di Lecce situata sulla via per la odierna San Pietro in Lama, 22 anni dopo la nascita di Cristo, da una nobile famiglia pagana. Il padre era tesoriere dell’imperatore e fu succeduto nella sua carica proprio dal figlio Publio all’età di 35 anni. La leggenda vuole che un giorno san Paolo, l’Apostolo delle genti, consegnasse una sua Lettera (alcuni studiosi pensano che si tratti della celeberrima “lettera ai Romani”) a Tizio Giusto di Corinto, affinché la recapitasse a Roma, mentre era in viaggio, Giusto fu sorpreso da una violenta tempesta, al largo delle coste salentine, che ne causò il naufragio presso l’attuale spiaggia di San Cataldo (Lecce), ove fu salvato e curato da Publio e suo nipote Fortunato mentre si erano recati a caccia. Giusto parlò a Publio dell’unico Dio, e Publio affascinato dalle verità evangeliche, abbracciò la fede cristiana, ricevendo il battesimo insieme a suo nipote Fortunato e cambiando il proprio nome in Oronzo, che significa “risorto”. Giusto e Oronzo cominciarono a predicare e furono denunciati dai sacerdoti pagani al pretore romano, che impose loro di offrire incenso a Giove nel tempio a lui dedicato. A questa imposizione Oronzo e Giusto si opposero e professarono la loro fede. Il pretore condannò Oronzo e Giusto alla flagellazione e li fece rinchiudere in carcere. Scarcerato, Giusto andò a Roma da Pietro. Conclusa la propria missione nella capitale dell’impero, Tizio Giusto tornò a Lecce e resosi conto dell’ardore apostolico che animava Oronzo e Fortunato, li invitò a seguirlo a Corinto, onde presentarli all’Apostolo Paolo. A Corinto furono accolti da Paolo, che intravista l’anima grande del giovane leccese e di suo nipote consacrò Oronzo primo Vescovo di Lecce e della Japigia (l’odierna Puglia), dandogli quale compagno di apostolato il laico Tizio Giusto, e nominando Fortunato successore di Oronzo. Tornati nel Salento, predicarono Cristo alla popolazione convertendone buona parte, ma l’inasprimento delle persecuzioni contro i Cristiani voluta dall’imperatore Nerone con l’invio a Lecce del ministro Antonino, costrinse Oronzo e Giusto a un esilio forzato da Lecce. Così intrapresero, un lungo viaggio missionario, che li portò in varie città della Puglia e della Lucania. Nel loro viaggio apostolico Oronzo e Giusto predicarono il vangelo e celebrarono l’eucarestia ad Ostuni e Turi, in grotte carsiche scavate nel sottosuolo con le quali riuscivano a sfuggire alle persecuzioni di Nerone e del suo Ministro Antonino, grazie anche all’aiuto delle popolazioni convertite. Andando via da Turi, i due apostoli si recarono a Siponto, a Potenza, a Taranto, per tornare, quindi a Turi, dove furono trovati dai legionari e ricondotti a Lecce, dove al termine di un processo sommario accusati di perduellio (alto tradimento nei confronti degli dei dell’Impero), vennero condannati a morte per decapitazione, secondo le leggi dell’ordinamento romano. Dopo undici giorni di tormenti e vessazioni, furono condotti a tre chilometri da Lecce dove suggellarono il loro amore a Cristo con il martirio mediante decapitazione. Morì il 26 agosto 68 d.C.; patrono di Lecce.