Oggi 27 febbraio la chiesa celebra san Gabriele dell’Addolorata (al secolo Francesco Possenti), nacque ad Assisi il 1 marzo 1838, ben presto conosce l’asprezza del vivere perché a quattro anni è già orfano di madre. Nel frattempo il padre, governatore dello Stato Pontificio, ha già lasciato Assisi e si è trasferito con tutta la famiglia a Spoleto dove Francesco, frequentò gli insegnamenti dei Fratelli delle scuole cristiane e dei Gesuiti, fino a 18 anni. Egli conduceva una vita normale per un ragazzo della sua età e della sua epoca. Era noto per la sua personalità affettuosa ed estroversa. Durante una grave malattia alla gola, ancora ragazzino, promise di diventare religioso se fosse guarito. Guarì due volte, ma egli rimandò questo impegno. A rompere gli indugi si incarica la Madonna stessa durante la processione dell’icona del duomo di Spoleto. È il 22 agosto 1856 e Francesco, in ginocchio tra la folla, avverte che l’immagine si anima, gli occhi della Madonna diventano lame scintillanti e una voce risuona chiarissima nel cuore: «Ancora non capisci che questa vita non è fatta per te? Segui la tua vocazione». Nonostante le forti difficoltà presentategli dal padre, Francesco fu in grado di vincere tutti i suoi argomenti e di persuaderlo della natura genuina della sua vocazione religiosa e quindici giorni dopo, il 6 settembre 1856, è già nel noviziato della Congregazione della Passione di Gesù Cristo (passionisti) a Morrovalle (Macerata). Nessuno riuscì a trattenerlo. Francesco prese i voti nella comunità passionista, assumendo il nome di Gabriele dell’Addolorata, che rifletteva la sua devozione per la Madonna Addolorata, radicata in lui fin dall’infanzia, da una statuetta della Pietà che la madre conservava in casa. Trascorse sei anni nella congregazione passionista, dal 1856 al 1862. Verso gli ultimi due anni, a Isola del Gran Sasso d’Italia (Teramo) presso il ritiro dell’Immacolata Concezione, venne colpito dalla tubercolosi ossea, ma si sforzò per le virtù che caratterizzavano la sua professione religiosa, il suo modello di santità: la fedele osservanza della regola, le rigorose pratiche ascetiche, il voto mariano, l’esortazione al bene e all’obbedienza, la carità verso i pastori poveri della zona. Le condizioni di salute e le vicende politico-militari del 1860-1861, non gli consentirono di ricevere l’ordinazione sacerdotale. Gabriele morì, il 27 febbraio 1862, a 24 anni, stringendo al petto un’immagine della Madonna Addolorata; patrono dell’Abruzzo e Gioventù cattolica italiana.
27 febbraio: san Giovanni di Gorze (al secolo Jean de Vandières), nacque a Meurthe-et-Moselle (Francia) nel X secolo, da una famiglia ricca e pia, Giovanni ricevette un’accurata formazione, prima a Metz e poi nel monastero benedettino di Saint-Mihiel. Alla morte del padre dovette occuparsi della gestione del patrimonio di famiglia. Quando i suoi fratelli poterono assumersi questo incarico, egli fu insediato, dal conte Ricuino, come curato della chiesa di Saint-Pierre de Vandières, di cui questi aveva il diritto di nomina, perché di sua proprietà. Allo stesso modo un nobile di nome Warnier gli offrì la cura della chiesa di San Lorenzo di Fontenoy-sur-Moselle. Jean aspirava ad una vita di asceta e ne cercò la via. Si recò quindi in pellegrinaggio in Italia a visitare alcuni monasteri, insieme ad altri amici chierici come lui, tra i quali l’arcidiacono Einoldo di Toul. Di ritorno in Lotaringia si ripropose, con i suoi compagni di viaggio, di entrare in uno dei monasteri italiani visitati, ma il vescovo di Metz Adalberone I, venuto a conoscenza dei loro progetti, propose loro la rifondazione di un’abbazia a Gorze, che in quel momento era quasi abbandonata ed Einoldo, arcidiacono di Toul, divenne abate del monastero restaurato, mentre Giovanni ebbe la funzione di cellerario. Così, nel 934, Jean ed i suoi amici entrarono nell’abbazia di Gorze. Essi si dedicano a riformare la regola benedettina, facendo sì che la vecchia abbazia (allora in territorio germanico) diventasse la punta di diamante di un movimento che si estese successivamente a tutto l’impero. Riuscí a ristabilire la prosperità materiale dell’abbazia, dedicandosi a una vita severa, pur trattando con dolcezza i deboli e gli ammalati. Nel 953 l’imperatore Ottone I lo inviò in missione presso il califfo di Cordova (Spagna), Abd al-Rahman III, rimanendovi prigioniero fino al 956. Rientrato a Gorze, divenne abate nel 967, succedendo ad Einoldo. Terminò i suoi giorni come abate di Gorze. Morì il 7 marzo 976.
27 febbraio: san Gregorio di Narek (Գրիգոր Նարեկացի), nacque ad Andzevatsik (Armenia) intorno all’anno 950, sua madre morì quando egli era ancora un bambino, mentre suo padre, rimasto vedovo, abbracciò la carriera ecclesiastica, affidando il piccolo Gregorio al monastero di Narek, sotto la guida propria del fondatore Anania Narekatsi. Presso il monastero esisteva una celebre scuola di Sacra Scrittura e di Patristica. Là ricevette una formazione cristiana solida e una grande preparazione intellettuale. Gregorio trascorse nel monastero tutta la sua vita: ben presto fu ordinato sacerdote, nel 977, e venne eletto abate del monastero alla morte di Anania, conducendo sempre una vita piena di umiltà e carità, impregnata di lavoro e di preghiera, animato da un ardente amore per Cristo e la sua Madre Santissima. La vita monastica gli fu indubbiamente di aiuto nel raggiungere le vette della santità e dell’esperienza mistica, dando dimostrazione della sua sapienza in vari scritti teologici e divenendo uno dei più importanti poeti della letteratura armena. La sua radicale fedeltà all’osservanza delle regole monastiche contrastava con il rilassamento di alcuni novizi. Questi, mossi dall’invidia, promossero contro di lui un’infame persecuzione, accusandolo di disseminare eresie nei suoi insegnamenti. Di conseguenza, fu deposto dai suoi incarichi. La Provvidenza non tardò a venire in aiuto del suo fedele servitore. Si racconta che i vescovi designarono due saggi monaci per interrogare Gregorio riguardo alle sue presunte eresie. Questi, però, ritennero più efficace sottoporlo a una prova. Si presentarono nella sua cella, nel periodo quaresimale di astinenza dalla carne prescritto dalla regola, e gli offrirono un delizioso paté di piccioni come se si trattasse di pesce. Non appena entrarono, Gregorio interruppe la preghiera, aprì la finestra, cominciò a battere le mani e a gridare agli uccelli che lì intorno cinguettavano: «Venite, uccellini, a giocare con il pesce che si mangia oggi». I due monaci intesero che quella facilità a scoprire e a liberarsi del tranello era una testimonianza eloquente della santità di Gregorio e, pertanto, dell’ortodossia della sua dottrina. Morì nel 1010, nel Monastero di Narek, dove venne sepolto.