Oggi 4 aprile la chiesa festeggia sant’Isidoro di Siviglia, nacque a Cartagena (Spagna) nel 560 circa, da una famiglia di antico lignaggio, fratello di san Leandro vescovo di Siviglia, di san Fulgenzio vescovo di Écija e santa Fiorentina badessa. Rimasto orfano, ancora bambino, venne educato dal fratello maggiore Leandro, divenuto vescovo di Siviglia. Ebbe, pertanto, una formazione cristiana eccellente. Dopo una gioventù spensierata, Isidoro, sotto la guida del fratello vescovo, si impegnò con tenacia allo studio. Fu consacrato sacerdote nel 601, all’età di 40 anni circa, alla morte di Leandro, gli succedette nella sede episcopale di Siviglia svolgendo il suo ministero pastorale con esemplare zelo e grande spirito di sacrificio. Si distinse per la predicazione contro le eresie residue dell’arianesimo e contro i cosiddetti “acefali”, negatori della dualità di natura in Cristo. Era noto per la sua cultura, la sua pazienza e la sua santità. Tenne la cattedra vescovile per ben 36 anni, e fondò presso Siviglia un collegio per la formazione culturale del clero e dei laici che divenne celebre in tutta la Spagna. La sua attività pastorale era intensa, efficace ed attiva. L’interesse per il suo gregge era paterno ed umile. Grande scrittore ed erudito, con la sua produzione letteraria abbracciò praticamente lo studio di tutte le scienze allora conosciute. Nella mole dei suoi scritti segnaliamo la Storia dei Goti e il Libro delle etimologie, che è un inventario di tutte le conoscenze umane, noto anche come Libro delle origini delle cose; due libri degli Uffici divini, che sono una spiegazione dell’antica liturgia spagnola; la Regola dei monaci, in cui si rivela uomo di legge e di ordine contro l’indisciplina, la Cronica major, storia universale che giunge fino all’anno 615, e una breve storia delle eresie, la De haeresibus. Curò, con grande diligenza, la liturgia in ogni minima parte, nelle sue formule, nei suoi simboli, sicché venne adottata in tutta la Spagna. Isidoro, oltre ad essere un dotto vescovo ed una mente eccelsa di intellettuale, fu uomo di umiltà e di carità. Nel 636, a 76 anni, Isidoro, presagendo prossima la sua morte, si fece portare nella Chiesa di San Vincenzo di Siviglia. Confortato, assistito dal suo clero e dai suoi fedeli, chiedendo perdono, pregando e benedicendo, si spense santamente, lasciando tutti i suoi averi ai poveri. Morì il 4 aprile 636; patrono di Internet.
4 aprile: san Benedetto Manasseri detto anche il Moro, nacque a San Fratello (Messina) nel 1524, da una coppia di schiavi africani, Cristoforo e Diana, nacque libero per concessione del suo padrone. A 18 anni lasciò la casa di famiglia lavorando per conto suo e cominciò anche ad aiutare i poveri. A 21 anni entrò nell’eremo di Santa Domenica, a Caronia, nei pressi del suo paese natale. Una vita dura, fatta di preghiera, digiuni e penitenze, nella quale si distinse su tutti gli altri tanto che la sua fama cominciò a spargersi nei paesi vicini e sempre più gente accorreva al frate per chiedere consigli, ricevere benedizioni e invocare miracoli. Fama che non si addiceva con la vita eremitica del gruppo, così tutti insieme i frati furono costretti a trasferirsi di eremo in eremo, ora vicino Raffadali nell’agrigentino, ora nelle grotte della Mancusa, tra Carini e Partinico, ora sul selvaggio monte Pellegrino (Palermo), dove, con la morte di Gerolamo, gli vengono affidate le redini della compagnia, nonostante il suo analfabetismo. Dopo circa diciotto anni da quando Benedetto era entrato nella vita eremitica, nel 1562, il papa Pio IV ordinò che la congregazione dei frati detti “del Lanza” fosse sciolta: dovevano lasciare la vita eremitica e abbracciare una delle famiglie religiose approvate. A malincuore, tutti ubbidirono disperdendosi non si sa dove. Benedetto già pensava di entrare a far parte dell’Ordine dei Cappuccini, ma mentre pregava nella cattedrale di Palermo, per tre volte ricevette un segnale celeste da cui capì di essere chiamato in quello dei Frati Minori di San Francesco. Venne accolto nel convento di Santa Maria di Ge¬sù (Palermo). Fu inserito nel gruppo dei frati laici di quell’Ordine, e trasferito nel convento di Sant’Anna a Giuliana, dove rimase tre an¬ni conducendo vita nascosta e solitaria. Tornò a Palermo, intorno al 1565, e qui trascorse il re¬sto della vita. Non era più un eremita, ma il suo stile di vita rimase praticamente immutato: il suo cibo fu sem-pre molto povero, spesso solo pane; non si tolse mai il cilicio che a suo tempo aveva indossato; riposava poco, per lo più a ter¬ra; si dedicava ai lavori più umili e faticosi. Pregava e meditava in ogni circostanza. Tuttavia egli era mi¬te e umile di cuore, aveva un’opinione molto bassa di sé, si riteneva il più piccolo degli uomini e diceva di essere un grandissimo peccatore. Spesso visitava i carcerati e gli infermi, offrendo loro tutti i servizi e le opere di carità ed esortandoli alla pazienza e a riporre in Dio la propria speranza. Aveva tanto amore e misericordia per i bisognosi che spesso conservava il frutto della sua astinenza e del suo digiuno per darlo ai poveri. E quando fu eletto, nel 1578, superiore del convento di Palermo, incarico accettato solo per ubbidienza, insisteva affinché il portinaio non respingesse alcun povero che veniva a chiedere l’elemosina. Nel mese di febbraio del 1589 fu colpito da una grave malattia. Morì il 4 aprile 1589, a 63 anni.
4 aprile: beato Francesco Marto (Francisco de Jesus Marto), nacque a Aljustrel (Portogallo) l’11 giugno 1908, fratello della beata Giacinta Marto e cugino di Lucia de Jesus, i tre pastorelli a cui apparve, il 13 maggio 1917, la Madonna alla “Cova da Iria”, vicino alla località di Fátima, mentre Francisco sorvegliava le pecore al pascolo, assieme alla sorella minore Giacinta e alla cugina Lucia, apparve loro la Madonna, rivelando tre segreti, noti come “Segreti di Fatima”. I pastorelli riferirono anche che la Madonna aveva rivelato loro la morte prematura di Francisco e Giacinta, aggiungendo che Lucia sarebbe rimasta a lungo sulla Terra: effettivamente avvenne così, poiché Lucia è morta nel 2005, all’età di 98 anni. Alla fine del 1918 Francesco e Giacinta furono irrimediabilmente colpiti dall’epidemia di broncopolmonite, la terribile “spagnola”, che seminò tanti morti in tutta l’Europa. La malattia lo rendeva così debole da non aver più la forza di recitare il Rosario. Egli sapeva perfettamente che sarebbe morto e tale certezza gli veniva da quanto la “Bianca Signora” aveva detto a Fatima nell’apparizione del 13 giugno 1917: «Vorrei chiedervi di portarci in cielo», domandò Lucia alla Vergine, a nome suo e dei cugini. «Sì, Giacinta e Francesco li porterò presto, ma tu devi restare qui ancora un pò di tempo». Durante la malattia Francesco si mostrò sempre allegro e contento. Quando Lucia gli domandava se soffriva molto, egli così rispondeva: «Abbastanza, ma non fa niente, soffro per consolare il Signore, e poi tra poco vado in cielo!». Nel febbraio 1919 le sue condizioni peggiorarono visibilmente e fu deciso di farlo rimanere a letto, assistito quasi sempre da Giacinta. Un giorno i due bambini mandarono a chiamare Lucia che, appena entrò da loro, disse: «La Madonna è venuta a trovarci e dice che presto tornerà a prendere Francesco per condurlo in Cielo». Il 2 aprile lo stato di salute di Francesco era così aggravato che fu chiamato il parroco per confessarlo. Egli temeva di morire senza poter ricevere la Prima Comunione e questo pensiero gli causava una grande pena. Ma il parroco lo accontentò somministrandogli per la prima volta l’Eucarestia la sera stessa. L’indomani Francesco diceva alla sorellina Giacinta: «Oggi sono più felice di te, perché ho Gesù nel mio cuore». E insieme si misero a recitare il santo Rosario. A notte salutò Lucia, dandosi un arrivederci in Cielo. Il suo volto si illuminò di un sorriso angelico e, senza agonia, senza contrazione, senza un gemito, spirò dolcemente. Morì il 4 aprile 1919, ad 11 anni.
4 aprile: beato Giuseppe Benedetto Dusmet, (al secolo Melchiorre Dusmet), nacque a Palermo il 15 agosto 1818, da una nobile famiglia di origini belga. Melchiorre fin da bambino pare dimostrasse particolare dilezione per i poveri. Entrò, all’età di 5 anni, come oblato nell’abbazia benedettina di San Martino delle Scale a Palermo. Compiuti gli studi il padre lo richiamò a Napoli, dove la famiglia si era nel frattempo trasferita, per sposarlo a qualche nobile fanciulla. Gli sforzi del padre furono vani ed il ragazzo tornò nel 1833 a San Martino ed assunse, da religioso il 15 agosto 1840, il nome di Giuseppe Benedetto, e il 15 agosto 1842 fu ordinato sacerdote. Fu un uomo di grande ingegno e di immense virtù, energico e al tempo stesso umile. Nel 1846 seguì come segretario l’abate Bruglio, destinato alla reggenza del monastero di Caltanissetta. Nel 1850 fu abate coadiutore dell’abbazia dei Santi Severino e Sossio a Napoli, dove i monaci non seguivano più la Regola, e anche qui riuscì a compiere egregiamente la sua missione. Dopo due anni tornò a Caltanissetta quale priore di Santa Flavia, dove seguì i restauri del monastero e si fece notare per la sua attenzione verso i bisognosi. Nel 1858 fu abate del monastero di San Nicolò l’Arena a Catania, dove fece rifiorire l’osservanza regolare, che nel tempo cominciò ad essere trascurata. Il 15 ottobre 1866, con la soppressione degli ordini religiosi e la confisca dei loro beni, l’abate insieme ai suoi monaci dovette abbandonare il monastero, sottomettendosi alle contestate disposizioni legislative, ma dopo qualche mese, il 10 marzo 1867, Giuseppe Benedetto veniva nominato vescovo di Catania. Continuò però a vivere la Regola pur nella dignità episcopale. L’azione pastorale di Giuseppe Benedetto fu notevole: riorganizzò il seminario, visitò le parrocchie per conoscerne i bisogni, incontrò i giovani e promosse le associazioni cattoliche per favorire la loro educazione cristiana e civile, diffuse la parola di Dio attraverso la stampa. Durante il suo episcopato aprì le porte dell’episcopio ai poveri, che in lui vedevano un padre, un fratello, un amico, l’immagine stessa di Gesù: istituì il dormitorio di San Giuseppe e l’opera degli infermi poveri a domicilio. Fu stretto collaboratore del papa Leone XIII, che più volte gli conferì importanti incarichi e il 14 febbraio 1889 lo nominò cardinale, per la gioia di tutto il popolo siciliano. Giuseppe Benedetto, quale cardinale, assunse il titolo di Santa Prudenziana, ma continuò a lavorare attivamente per la confederazione delle congregazioni benedettine. Il rientro a Catania fu un vero trionfo, anche se Giuseppe Benedetto disdegnasse le solenni manifestazioni, non si poté stavolta trattenere il popolo che riconosceva in quella berretta rossa concessa dal Papa il più bel ringraziamento per quel Pastore benedetto. Stanco e malato, ma con chiara fama di santità, moriva e il suo letto era privo di lenzuola: aveva donato ai poveri anche quelle. Morì a Catania il 4 aprile 1894.