Oggi 8 febbraio la chiesa ricorda san Girolamo Emiliani, nacque a Venezia nel 1486 da una famiglia nobile, il padre era senatore della Serenissima, la madre era discendente di dogi. A 10 anni rimase orfano di padre e nel 1506 iniziò la carriera pubblica. Nel 1511 andò a Castelnuovo di Quero a sostituire il fratello Luca, ferito in guerra, e durante un violento assedio nemico, venne catturato e imprigionato, nei sotterranei del castello. Nei giorni passati nella solitudine della prigione si avvicinò alla preghiera, trovandosi, improvvisamente libero, grazie alla intercessione della Vergine, passando inosservato tra i nemici, andò a Treviso nel santuario di Santa Maria Maggiore per sciogliere il suo voto, ponendo sull’altare le catene che lo avevano tenuto prigioniero. Al termine del suo mandato a Castelnuovo, nel 1527 abbandonò l’attività militare e politica per occuparsi della vedova del fratello, e dei tre nipoti, amministrando il loro patrimonio. Più tardi, essendo deceduto un altro fratello, prese a carico anche i suoi tre figli. Tornato a Venezia si dedicò interamente a Dio, accostandosi alle esperienze spirituali e caritative; nel 1522 era stato fondato per opera di san Gaetano Thiene l’ospedale degli Incurabili e lì Girolamo conobbe anche nel 1527 Gian Piero Carafa (futuro Paolo IV) che diventò il suo direttore spirituale, e i primi teatini giunti da Roma, che lo coinvolsero nella loro attività a favore dei poveri e degli ammalati. Nel corso della tremenda carestia che infierì nella regione nel 1528-29, Girolamo prestò assistenza nell’Ospedale degli Incurabili, accogliendovi tutti quelli che vi si presentavano, ma soprattutto gli orfani che raccoglieva dalla strada. Per questi ultimi rilevò una bottega, per insegnare loro i primi elementi della dottrina cristiana e per avviarli all’arte della lana. Il tifo petecchiale colpì anche lui in quel periodo, riducendolo in fin di vita, ma ne guarì miracolosamente; allora egli decise di rinunciare ad ogni proprietà per dedicarsi interamente ai poveri, ai sofferenti e agli orfani. Il 6 febbraio 1531 lasciò la casa paterna, fece formale rinuncia di tutti i suoi beni in favore dei nipoti, sostituisce gli indumenti patrizi con un saio e va a vivere a San Rocco, dove aprì una nuova bottega per gli orfanelli, dove impartisce un’istruzione di base e una formazione cristiana. Due anni dopo, per esortazione di alcuni amici e dietro invito di alcuni vescovi, cominciò un suo itinerarium caritatis attraverso varie città, dove diede vita a molteplici fondazioni per l’assistenza dei più bisognosi. Nel 1532 convocò a Merone, per coordinare i metodi di lavoro, in quello che si può definire il primo capitolo generale dell’Ordine che si andava formando con la denominazione di “Compagnia dei servi dei poveri”. Tra il 1532 e il 1533 costituisce la prima comunità a Bergamo, dove fondò l’Orfanotrofio della Misericordia; nel 1934 costituisce una comunità a Somasca, un paese tra Bergamo e Lecco nella Valle di San Martino, da lui scelto come sede centrale dell’istituzione. La nuova famiglia religiosa sarà approvata da papa Paolo III nel 1540; successivamente papa Pio IV la eleverà a Ordine Religioso, con il titolo di Chierici Regolari di Somasca (somaschi). Verso la fine del 1536 Girolamo fu invitato dal cardinale Carafa a Roma, ma nei primi mesi dell’anno successivo scoppiò nella Valle di San Martino una epidemia di peste, che contagiò anche lui. Morì a Somasca l’8 febbraio 1537; patrono degli orfani e della gioventù abbandonata.
8 febbraio: santa Giuseppina Bakhita, nacque a Olgossa (Africa) nel 1869. All’età di circa 5 anni viene rapita da mercanti arabi di schiavi. Per il trauma dimentica il proprio nome così come quello dei propri familiari: i suoi rapitori la chiamarono Bakhita, parola araba che significa “fortunata”. Venduta più volte dai mercanti di schiavi, conosce le umiliazioni, le sofferenze fisiche e morali della schiavitù. Subisce inoltre un tatuaggio, imposto in modo cruento, mentre era al servizio di un generale turco: sul suo petto, sul ventre e sul braccio destro le vengono disegnati oltre cento segni, incisi poi con un rasoio e successivamente coperti di sale, al fine di creare cicatrici permanenti. A Khartoum, capitale sudanese, viene comprata da Calisto Legnani, console italiano residente in quella città, il proposito è quello di liberarla. Il console già in precedenza aveva comprato bambini schiavi per restituirli alle loro famiglie. Nel caso di Bakhita il ricongiungimento si rendeva difficile, a causa del vuoto di memoria della bambina riguardo ai nomi dei propri familiari. Bakhita si ferma a vivere nella casa del console per due anni, serenamente, lavorando con gli altri domestici senza che nessuno l’abbia più considerata una schiava. Situazioni politiche costrinsero il signor Calisto a rientrare in Italia. Bakhita chiese e ottenne di partire con lui e un suo amico, Augusto Michieli. Giunti a Genova, il console, pressato dalle richieste della moglie del Michieli, offrì loro Bakhita che seguì i nuovi padroni nell’abitazione di Zianigo (Venezia) e, quando nacque la figlia Alice, chiamata Mimmina, Bakhita ne divenne la bambinaia e l’amica. L’acquisto e la gestione di un grande hotel a Suakin, sul Mar Rosso, costrinsero la signora Michieli a trasferirsi in quella località per aiutare il marito. La prima volta portò con sé la piccola e la bambinaia, poi, per suggerimento dell’amministratore della famiglia Michieli, Illuminato Checchini, Mimmina e Bakhita vennero affidate alle Suore Canossiane dell’Istituto dei Catecumeni di Venezia. Prima che Bakhita lasciasse casa Michieli, il signor Illuminato, che diventerà il suo “Paron”, il quale desiderava tanto farle conoscere il Signore, le regalò un crocifisso di metallo. Giunta all’Istituto dei Catecumeni, Bakhita chiese e ottenne di conoscere quel Dio che fin da bambina sentiva «in cuore senza sapere chi fosse». Nel novembre del 1889, quando la signora Michieli ritornò dall’Africa per riprendersi la figlia e Bakhita, quest’ultima, con coraggio, manifestò la sua volontà di rimanere con le Suore Canossiane e servire quel Dio che le aveva dato molte prove del suo amore. Il 29 novembre 1889 Bakhita viene dichiarata legalmente libera, così poté rimanere e proseguire il suo cammino che la introduceva nell’esperienza cristiana. Il 9 gennaio 1890 Bakhita ricevette il battesimo con i nomi di Giuseppina, Margherita, Fortunata, Maria Bakhita, la cresima e la prima comunione. Ogni giorno rendeva Bakhita sempre più consapevole di come quel Dio, che ora conosceva e amava, l’aveva condotta a sé per vie misteriose, tenendola per mano. Bakhita rimase nel Catecumenato, dove si fece sempre più chiara in lei la chiamata a farsi religiosa e l’8 dicembre 1896 si consacrò al suo Signore nell’Istituto di santa Maddalena di Canossa. Nel 1902 da Venezia fu trasferita a Schio (Vicenza), dove visse fino alla morte, prestandosi in diverse occupazioni: cuciniera, ricamatrice, sagrestana, portinaia. Morì l’8 febbraio 1947, dopo una lunga e dolorosa malattia.