Oggi 10 febbraio la chiesa ricorda santa Scolastica da Norcia, nacque a Norcia verso il 480, discendeva dall’antica famiglia senatoriale degli Anicii. Sua madre morì poco dopo aver partorito due gemelli: Benedetto e Scolastica. Il padre, che aveva dedicato grandi cure ai due bambini, fece voto di destinarla alla vita monastica. All’età di 12 anni venne mandata a Roma con suo fratello Benedetto per compiere gli studi classici, ma entrambi restarono profondamente turbati per la vita dissoluta che vi si conduceva. Benedetto per primo decise di ritirarsi in eremitaggio. Scolastica, rimasta unica erede del patrimonio della famiglia, rifiutando ogni attaccamento ai beni terreni, chiese al padre di potersi dedicare alla vita religiosa entrando in un monastero vicino a Norcia. Il padre, sebbene riluttante, acconsentì ricordandosi del voto che aveva fatto quando Scolastica era poco più che adolescente. Quando san Benedetto fondò l’abbazia di Montecassino, Scolastica, decise di seguirlo e fondò, ai piedi del monte, il monastero di Piumarola, a circa 7 km dall’abbazia del fratello, dove assieme alle consorelle seguì la regola di San Benedetto dando origine al ramo femminile dell’Ordine Benedettino. I due gemelli si incontravano una volta all’anno in una casa a metà strada tra i due monasteri. Nell’ultimo di questi incontri, avvenuto il 6 febbraio 547, poco prima della sua morte, Scolastica chiese al fratello di protrarre il colloquio spirituale fino al mattino seguente, ma Benedetto si oppose per non infrangere la regola. San Benedetto, che mai si era allontanato dalla sua cella durante la notte, si avviò alla porta, rifiutando di esaudire le preghiere della sorella. Allora Scolastica si raccolse qualche minuto in preghiera implorando il Signore di non far partire il fratello e scoppiò in un pianto dirotto. Quando Benedetto infilò la porta per uscire dovette rinunciare perché infuriava una tempesta. Benedetto, che vi riconobbe un miracolo, a rimanere con lei conversando tutta la notte. Benedetto ebbe notizia della morte della sorella, avvenuta tre giorni dopo il loro ultimo incontro, da un segno divino, vide l’anima della sorella salire in cielo sotto forma di una bianca colomba. Morì a Piumarola il 10 febbraio 547; patrona dell’ordine delle monache benedettine.
10 febbraio: san José Sánchez del Río, nacque il 6 febbraio 1913 a Sahuayo (Messico). Frequenta la scuola nella sua città natale e successivamente a Guadalajara. A poco più di 10 anni già svolge un apostolato spicciolo in mezzo ai suoi compagni, insegnando loro a pregare e accompagnandoli in chiesa per l’adorazione eucaristica. In Messico, in quel periodo governava il presidente Plutarco Elías Calles, a capo di un governo massonico e socialista, sostenitore di leggi anticattoliche e laiciste. La persecuzione ai danni della Chiesa messicana fu feroce, l’obiettivo era quello di annientarla: scuole cattoliche e seminari chiusi, sacerdoti sottoposti all’autorità civile, preti stranieri espulsi. La popolazione non poteva sfuggire alla scelta, o rinunciare alla fede o perdere il lavoro. Di fronte a tutto ciò si sollevò un’insurrezione, composta da contadini, operai, studenti, che difese il proprio Credo e per farlo fu costretto ad impugnare le armi. Ecco, dunque, formarsi l’esercito dei Cristeros, sostenitori del Regno sociale di Nostro Signore Gesù Cristo. «Viva Cristo Re» il loro grido di battaglia. José, che aveva solo 13 anni, il 6 febbraio 1928 impugna con orgoglio lo stendardo mariano il giorno della cruenta battaglia di Cotija. Ha supplicato la madre di non essere lasciato a guardare, ottenuto il consenso, si prepara ad affrontare anche la morte: tutto per Cristo. Diventa così la mascotte dei Cristeros, che lo chiamano Tarcisius come il santo adolescente di Roma, che subì il martirio mentre portava l’Eucaristia ai cristiani in carcere. Durante la violenta battaglia, del 25 gennaio 1928, il cavallo del suo generale viene ucciso e José gli cede il suo così da permettergli di ritirarsi, perché, dice: «la vostra vita è più utile della mia». I cristeros, a corto di munizioni, tentano di coprire la ritirata, ma alla fine l’esercito federale riesce a catturare diversi prigionieri, tra cui il piccolo José, che finisce prigioniero nella chiesa del suo paese, Sahuayo, profanata dai soldati federali e trasformata in un pollaio. Vedendo un tale sacrilegio, José non trattiene la rabbia e tira il collo a qualche gallinaceo, ma il gesto provoca una tragica rappresaglia. Alcuni soldati lo picchiano, lo torturano, ma non lo piegano, anzi egli urla il grido di battaglia: «Viva Cristo Re». L’8 febbraio è costretto ad assistere, all’impiccagione di Lázaro, un altro ragazzo che era stato imprigionato insieme a lui. Il corpo del giovane, ritenuto morto, viene trascinato nel vicino cimitero, dove è abbandonato; però si tratta di morte apparente, infatti Lázaro si riprende e fugge via. La sopportazione di José, che nessuna sofferenza è in grado di piegare, diventa una questione da risolvere al più presto per i persecutori. Gli aguzzini cercano di fargli rinnegare la fede promettendogli, oltre alla libertà anche del denaro, una brillante carriera militare, persino un espatrio negli Stati Uniti d’America. Ma la sua risposta è una sola: «Viva Cristo Re, viva la Madonna di Guadalupe». I persecutori trovano un’alternativa: chiedere un riscatto ai genitori, ma José li convince a non pagare, o accettare di essere mandato all’accademia militare; ma José rifiutò entrambe le proposte e rimase in prigione. Nel frattempo continuarono le torture, i soldati sfogano su di lui tutta la loro ferocia, spellandogli lentamente le piante dei piedi, facendolo camminare sul sale e trascinandolo senza scarpe su una strada selciata, fino al cimitero. Josè, spintonato come Gesù sulla strada del calvario, continua a gridare la sua fede. Giunti al cimitero e posto davanti la fossa in cui sarebbe stato sepolto, prima di sparargli, gli chiedono un’ultima volta se vuole rinnegare la sua fede. Al suo ennesimo rifiuto, lo pugnalano, non mortalmente, e gli fu chiesto di nuovo, di rinnegare la sua fede, ma José ad ogni ferita gridava «Viva Cristo Re». Vorrebbero finirlo a pugnalate, ma il capitano, innervosito da quelle grida, estrae la pistola e gli spara. José ormai agonizzante riesce a tracciare una croce sul terreno con il suo sangue. Morì il 10 febbraio 1928.
10 febbraio: beato Alojzije Viktor Stepinac, nacque a Krašić (Croazia) l’8 maggio 1898, da una famiglia di contadini benestanti. Dopo gli studi elementari nel natio paese, compì gli studi liceali presso il seminario arcivescovile di Zagabria, ottenne la maturità nel 1916 mentre era in corso la Prima Guerra Mondiale, fu arruolato nell’esercito austro-ungarico, dopo sei mesi di servizio divenne tenente e combatté sul fronte italiano, cadde prigioniero nella battaglia del Piave nel luglio 1918. Nel frattempo aveva rinunziato all’idea di farsi sacerdote, infatti nell’autunno del 1919, prese a frequentare la Facoltà di Agronomia nell’Università di Zagabria, ma nel 1924, a 26 anni, si recò a Roma per studiare nel Collegio Germanico-Ungarico e all’Università Gregoriana. Fu ordinato sacerdote il 26 ottobre 1930. Nel 1931 lasciò Roma per ritornare in Croazia, dove si era instaurata, dal gennaio 1929, la dittatura del re Alessandro di Serbia; la situazione era difficilissima, perché i Serbi facevano di tutto per estirpare la religione cattolica a favore di quella ortodossa. Alojzije ebbe incarichi nella Curia, fu primo presidente della Caritas diocesana, istituita per suo consiglio nel novembre 1931, dall’arcivescovo Anton Bauer. Il 29 maggio 1934 papa Pio XI lo nominò, a soli 36 anni, vescovo coadiutore con diritto di successione dell’arcivescovo di Zagabria e il 7 dicembre 1937, morto l’arcivescovo, diventò titolare della diocesi. Nel 1941 la Croazia divenne uno Stato indipendente con l’aiuto del nazifascismo, sotto il regime di Ante Pavelić, il quale seguendo l’esempio di Hitler e Mussolini, prese a perseguitare le minoranze (ebrei, zingari, dissidenti, serbi). L’arcivescovo Alojzije prese subito le difese dei perseguitati, intervenne con una lettera presso Pavelić, chiedendo il «rispetto totale della persona, senza distinzione di età, sesso, religione, nazionalità e razza». Durante la Seconda Guerra Mondiale fu un’ostinato avversario del Nazifascismo difendendo ebrei e zingari. Dopo il 1945 Alojzije diventerà uno dei più audaci difensori della libertà religiosa contro il regime di Josip Broz Tito. Iniziarono subito le stragi e le persecuzioni dei cattolici. Il 17 maggio 1945 Alojzije fu arrestato insieme a molti sacerdoti e ad alcuni vescovi. Tito lo liberò il 3 giugno e gli propose di fondare una Chiesa nazionale croata sottomessa al regime comunista e separata da Roma, ma l’arcivescovo si rifiutò. Il 18 settembre 1946, la magistratura di Zagabria dispose l’arresto di Alojzije, accusandolo di attività eversiva contro lo Stato jugoslavo. La risposta dell’arcivescovo fu dura e ferma, quindi ripresero le persecuzioni contro la Chiesa Cattolica. L’arcivescovo il 22 settembre 1945 fece pubblicare una lettera dell’episcopato croato, che denunciava le ingiustizie subite dalla Chiesa. Il regime comunista reagì furiosamente, Alojzije fu arrestato il 18 settembre 1946 e subì un processo-farsa messo su con false testimonianze e calunnie, svoltosi a Zagabria fra il 30 settembre ed il 10 ottobre. L’11 ottobre l’arcivescovo venne condannato a 16 anni di lavori forzati ed alla perdita dei diritti civili. Il 19 ottobre 1946 fu rinchiuso nel carcere di Lepoglava in completo isolamento, fino al 5 dicembre 1951; poi alla fine del 1951 venne confinato nel villaggio natio di Krasic, sorvegliato dalla polizia, senza esercitare il ministero episcopale. Il 12 gennaio 1953 papa Pio XII lo creò cardinale, ma non gli fu mai permesso di recarsi a Roma e pertanto non ricevette mai un titolo cardinalizio. Durante la prigionia, trasformata in seguito negli arresti domiciliari, Stepinac avrebbe sviluppato i sintomi di una malattia genetica. Si aggravò e morì a Krašić il 10 febbraio 1960, pregando per i suoi persecutori; esiste una testimonianza di un carceriere di Stepinac che riferisce di avergli somministrato del veleno.
10 febbraio: servo di Dio Giovanni Palatucci, nacque a Montella (Avellino) il 31maggio 1909, importante fu nella sua formazione l’influenza morale e culturale degli zii Antonio e Alfonso, frati francescani conventuali, e dello zio Giuseppe Maria Palatucci, vescovo di Campagna. Compì gli studi presso il Ginnasio “Dionisio Pascucci” di Dentecane di Pietradefusi e il Liceo Classico “Pietro Giannone” di Benevento. Dopo la maturità, che conseguì, a Salerno nel 1928, svolse nel 1930 il servizio militare come allievo ufficiale di complemento, a Moncalieri. Nel 1932, a 23 anni, si laurea in giurisprudenza presso l’Università di Torino, con una tesi in Diritto penale, ed aveva anche superato gli esami per Procuratore legale, ma l’avvocatura non lo entusiasmava. Partecipò al concorso per funzionari di Polizia e, il 16 settembre 1936, fu inviato a Genova come vice-commissario. Dal 1937 fu assegnato all’ufficio stranieri della Questura di Fiume e si trovò a contatto diretto con una realtà di rara umanità ed in particolare con la condizione degli Ebrei. Giovanni era un cattolico di profonda fede; nello svolgimento del suo lavoro salvò migliaia di ebrei a rischio della propria vita, fornendo loro permessi speciali, attuando azioni di depistaggio e favorendo la fuga all’estero e l’instradamento nei centri italiani meno esposti alle leggi razziali; affidò alla protezione dello zio vescovo di Campagna, molti Ebrei da internare nel campo di concentramento della cittadina salernitana. Egli non volle allontanarsi da Fiume neanche quando il Ministero dispose nell’aprile del 1939 il trasferimento a Caserta. Con la creazione della Repubblica Sociale ed il disfacimento dell’esercito italiano, Giovanni decide di rimanere a Fiume e diventa capo di una Questura fantasma, si rifiuta di consegnare ai nazisti anche un solo ebreo, anzi continua a salvarne molti rischiando la vita, non voleva essere complice dell’olocausto. In questo modo poté aiutare gli ebrei solo clandestinamente: fa sparire allora gli schedari, dà soldi a quelli che hanno bisogno di nascondersi, riesce a procurare a qualcuno il passaggio per Bari su navi di paesi neutrali. Il Console svizzero a Trieste, che è un grande amico di Giovanni, lo mette sull’avviso che anche lui è in pericolo e lo invita a trasferirsi in Svizzera. Prende contatto con i partigiani italiani e, sotto il nome di Danieli, concorda con loro un progetto, da far giungere agli alleati, per la creazione, a guerra finita, di uno Stato libero di Fiume. I nazisti, messi sull’avviso da spie, non fidandosi più di lui gli perquisirono la casa. Il 13 settembre 1944 venne arrestato dalla Gestapo e tradotto nel carcere Coroneo di Trieste. Il Questore di Fiume, che non aveva fatto nomi nonostante le torture, fu condannato a morte per cospirazione. La pena fu poi commutata nella deportazione, il 22 ottobre, nel campo dì sterminio di Dachau (Germania), con il numero di matricola 117826. Morì il 10 febbraio 1945, a soli 36 anni.