a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 17 luglio la chiesa celebra san Leone IV, 103º papa della Chiesa cattolica; nacque a Roma nel IX secolo. Il futuro papa fu educato nel monastero di San Martino al Vaticano, adiacente alla Basilica di San Pietro, e intraprese la carriera ecclesiastica. Fu suddiacono sotto Gregorio IV che lo aveva in stima e venne scelto all’unanimità per succedere a Sergio II quand’era ancora cardinale prete con il titolo dei Santi Quattro Coronati, al Celio. L’elezione di Leone a papa nell’847 si sarebbe svolta in un clima di generale consenso all’interno della Chiesa romana, favorito dal drammatico frangente dell’assalto saraceno a San Pietro e San Paolo, avvenuto pochi mesi prima, e dal diffuso riconoscimento delle sue qualità personali, come la persona giusta per ricoprire la massima carica ecclesiastica romana in un così delicato momento. Il fatto che la sua scelta fosse avvenuta ancor prima della celebrazione delle esequie del predecessore Sergio II sembra confermare questa lettura degli eventi. Le difficili circostanze dell’elezione di Leone IV determinano una rottura nella prassi stabilita nell’844 per la consacrazione del nuovo pontefice. Per poter essere consacrato, l’eletto, in forza di una nuova ordinanza di Lotario I, che inaspriva il vincolo imposto al Papato, al clero e al laicato romani dalla Constitutio dell’824, avrebbe dovuto attendere una iussio (un comando) dell’imperatore e la consacrazione aver luogo alla presenza di messi da lui inviati. Sergio II era morto il 27 gennaio 847 e i Romani esitarono a consacrare il nuovo eletto “sine auctoritate imperiali” (senza l’autorità imperiale) ma, vista la situazione di pericolo in cui si trovavano, il 10 aprile 847, procedettero comunque alla consacrazione di Leone IV. La consacrazione era stata irregolare, poiché era avvenuta sine nomina imperatoris (senza il permesso dell’imperatore) e dunque senza il suo beneplacito, ma Lotario non se ne risentì, come nel caso del predecessore papa Sergio II, probabilmente perché era ben consapevole della mancata difesa di Roma dall’assalto dei Saraceni. Il saccheggio delle basiliche di San Pietro e San Paolo dell’846 aveva dimostrato l’insufficienza di quanto realizzato sino allora sul territorio. In quell’occasione era soprattutto emersa l’estrema pericolosità dell’assenza di strutture di difesa a protezione del nucleo vaticano, esterno alle mura aureliane. L’azione di Leone IV in questo ambito si dispiegò con grande rapidità. Egli, infatti, nel giro di 5 anni realizzò il rafforzamento delle difese costiere, ristrutturando le fortificazioni di Porto; intervenne inoltre sul sistema difensivo di Roma, facendo restaurare le mura aureliane e soprattutto provvedendo alla realizzazione di un sistema di fortificazioni intorno al Vaticano. Creò la “città leonina”, cioè fortificò con mura di difesa tutto il quartiere intorno a San Pietro, da Trastevere a Castel Sant’Angelo. Opera che gli valse l’appellativo di «restauratore di Roma». Nel suo breve pontificato, i dissidi si riaccesero, tanto che nell’852 Leone IV incontrò difficoltà nel mantenere il controllo su Ravenna e il territorio circostante. Il problema della concorrenza tra l’arcivescovo di Ravenna e l’autorità papale si era posto in modo rilevante almeno sin dai tempi di Adriano I. Leone IV intervenne per denunciare pressioni esercitate dall’arcivescovo Giovanni di Ravenna per ostacolare l’azione dei delegati pontifici incaricati dell’amministrazione dei patrimoni papali: questi beni fondiari erano tra i maggiori motivi di frizione tra Roma e Ravenna, poiché costituivano non solo rilevanti proprietà, ma anche perché rappresentavano lo strumento che offriva ai papi maggiori possibilità di controllo sull’Esarcato. Inoltre in ambienti molto vicini all’arcivescovo di Ravenna maturò l’assassinio di un legato inviato da Leone IV a incontrare l’imperatore Lotario. Il papa si recò a Ravenna per catturare gli autori dell’omicidio, tra cui il fratello dell’arcivescovo, e trascinarli a Roma, davanti a un tribunale, dove vennero condannati a morte, pena alla quale furono sottratti solo grazie all’intervento personale dell’imperatore Lotario. Morì il 17 luglio 855.
17 luglio: santa Edvige d’Angiò regina di Polonia, nacque a Buda (Ungheria) il 18 febbraio 1374, da un’antica famiglia reale polacca. Edvige ebbe un’ottima educazione e fu istruita soprattutto nelle lingue, arrivando a parlare correntemente il latino, l’ungherese, il croato, il polacco e il tedesco, ma era stata educata a leggere abitualmente anche la Sacra Scrittura, il Salterio, le Omelie dei Padri della Chiesa, le meditazioni e le orazioni di san Bernardo, i Sermoni e le Passioni dei Santi ed altre opere religiose classiche. Alla morte del padre, nel 1382, il trono ungherese fu ereditato dalla sorella maggiore Maria, ma i baroni si opposero strenuamente al riconoscimento quale nuovo sovrano. I nobili polacchi scelsero allora come nuovo monarca la sorella minore, Edvige, all’epoca poco più che bambina. Le trattative furono gestite in sua vece dalla regina madre. Dopo due anni di negoziati, Edvige si recò finalmente a Cracovia, dove il 16 novembre 1384 fu incoronata re di Polonia. L’uso del titolo al maschile aveva lo scopo di sottolineare il fatto che Edvige assumeva la dignità regia per suo proprio diritto e non come regina consorte. Data la minore età, la Polonia necessitava di un reggente che governasse in nome di Edvige. I parenti diretti di Edvige erano tutti in Ungheria e l’unico familiare a lei più vicino che risiedesse in Polonia era il fratello della madre, Ladislao di Cujavia, principe di Gniewkowo e privo di eredi. L’ascesa al trono di Edvige fece di lei un partito ambitissimo per i grandi nobili europei. Subito dopo l’incoronazione si fecero avanti nuovi pretendenti alla mano della sovrana, fra i quali il duca Siemowit IV di Masovia e il Granduca Jagello di Lituania, sostenuto dai baroni della Polonia. Il 18 febbraio 1386, a soli 10 anni, sposò il principe Ladislao II Jagellone di Lituania, cristiana praticante e timorata di Dio, accettò di convolare a nozze solo quando lo sposo si dichiarò disposto a battezzarsi, in qualità di sovrana cristiana, seppe testimoniare la sua fede con irrepetibile sensibilità. Dalla sua profonda ascesi cristiana, scaturì un giusto autocontrollo volto a dominare il suo carattere forte e vivace. Edvige si rivelò sempre fedele alla tradizione ed in profonda comunione con la Sede Apostolica. Ottenne da papa Bonifacio IX la possibilità di celebrare il Giubileo in Polonia, per consentire ai suoi sudditi di poter celebrare l’evento in patria, evitando così di esporre i fedeli ai rischi del pellegrinaggio a Roma. Incoraggiò la traduzione in polacco di molti testi latini in modo da incrementarne la diffusione fra i suoi sudditi. Fu molto attiva e prodiga in donazioni per la costruzione di ospedali e luoghi di accoglienza per poveri e orfani. Donò i suoi gioielli e persino delle insigne regali per finanziare il recupero dell’Accademia di Cracovia, ribattezzata, nel 1817, come Università Jagellonica in onore suo e di suo marito. Fondò, nel 1397, a Cracovia, la prima Facoltà di Teologia della storia polacca. Al tempo stesso si dimostrò tollerante nei confronti delle altre confessioni cristiane e delle altre religioni. Il matrimonio non fu subito fruttuoso e, purtroppo ebbe modo di gioire assai poco della sua maternità fisica, perché l’unica figlia, erede al trono, Elisabetta Bonifacia morì in breve tempo dopo la sua nascita, il 22 giugno 1399, e la stessa sovrana andò incontro a serie complicazioni che ne compromisero la salute. Morì il 17 luglio 1399, a 25 anni; patrona delle regine e della Polonia.
17 luglio: sant’Alessio di Roma, nacque a Roma nel IV secolo, da ricchi genitori romani. La sua vita è conosciuta attraverso tre tradizioni, una siriaca, una greca e una romana. Secondo la leggenda siriaca Alessio, figlio di Eufemiano e Agalé, era un patrizio di Costantinopoli, fidanzato con una donna virtuosa che convinto da quest’ultima, la sera delle nozze, a rinunciare al matrimonio, per partire seguendo la sua vocazione spirituale. Si imbarcò per la Siria del nord (l’attuale Turchia) per arrivare poi alla città di Laodicea e poi a Edessa (l’attuale Urfa). Alessio rinunciò alle sue nobili origini per diventare un semplice mendicante e dedicare la sua vita ai più bisognosi: di giorno chiedeva l’elemosina, mentre la sera donava tutto ciò che aveva racimolato ai poveri della città affinché si sfamassero e si prendessero cura di loro stessi, comprando vestiti e medicamenti per i malati. Edessa, poco prima di morire come mendicante in un ospedale, rivelò di appartenere ad una famiglia nobile romana e di aver rifiutato il matrimonio per consacrarsi a Dio; così gli furono tributati gli onori degli altari. La verità la raccontò solo al parroco della chiesa dove mendicava e fu proprio il sacerdote a trovarlo morto, la mattina dopo, sul sagrato della chiesa. Secondo la versione greca e romana, invece, Alessio, patrizio di Roma, dopo una vita da mendicante in paesi lontano, fece ritorno 17 anni più tardi a Roma alla casa paterna, dove però nessuno lo riconobbe vestito com’era da mendicante. Qui visse come servo dei suoi stessi genitori dormendo in un sottoscala, prima di morire scrisse in un biglietto tutta la sua vita, della rinuncia del matrimonio e della partenza a Edessa. Secondo la leggenda solo papa Innocenzo riuscì ad aprire la sua mano e a leggere il biglietto, provocando la sorpresa dei genitori. Alla morte del santo si sprigionò prodigiosamente un suono festoso di campane. Morì il 17 luglio 412; patrono dei mendicanti e campanari.
17 luglio: santa famiglia Romanov, 17 luglio: santa famiglia Romanov, lo zar Nicola Aleksandrovic nacque il 6 maggio 1868, sin dall’infanzia si mostrò religiosissimo, mite, desideroso di essere un vero padre per il suo popolo, ma anche irrisoluto, influenzabile, incapace di assumersi la responsabilità del necessario rinnovamento politico e sociale: in una parola, non certo adatto a reggere il peso del trono nei tempi tragici che avrebbe avuto in sorte di vedere, alla morte del padre, l’autoritario Alessandro III, Nicola II salì al trono, poco dopo sposò la principessa Alice d’Assia, che si convertì all’ortodossia prendendo il nome di Aleksandra Fedorovna, la coppia ebbe quattro figlie, ma l’atteso erede maschio nacque solo nel 1904, l’anno precedente lo zar e la moglie avevano partecipato alla beatificazione di san Serafino di Sarov, al quale avevano chiesto la grazia di un erede. Fortemente unita e ammirevole nella sua fede, la famiglia imperiale era però del tutto avulsa dalla realtà politica e sociale dell’epoca, e per di più soggiaceva all’influsso di inaffidabili consiglieri, quali il famoso Rasputin. Lo scoppio della guerra mise a nudo tutte le contraddizioni e le difficoltà della società russa, incapace di reggere il confronto con le più avanzate nazioni dell’Europa occidentale se non al prezzo di inauditi sacrifici. Nel febbraio 1917 scoppiarono a Pietrogrado le prime avvisaglie della bufera rivoluzionaria. Lo zar era al fronte, al quartier generale, poco o nulla informato di quanto avveniva nella capitale, una delegazione lo raggiunse sollecitandolo ad abdicare per la salvezza del paese, angosciato per le sorti del suo paese, Nicola abdicò. Si ricongiunse allora alla famiglia nella residenza di Carskoe Selo, dove venne tenuto sotto stretta sorveglianza. La situazione si fece disperata dopo la Rivoluzione di Ottobre e la presa del potere da parte dei bolscevichi. Alla fine dell’aprile 1918, il governo sovietico ordinò che la famiglia imperiale venisse trasferita a Ekaterinburg, sugli Urali. Gli ultimi mesi di Nicola e dei suoi familiari furono angosciosi e umilianti. Sottoposti alla violenza e alla volgarità dei loro futuri carnefici, lo zar, la moglie, i figli e i domestici, che avevano voluto seguirli sino alla morte, mostrarono un’ammirevole dignità e una fede forte e incrollabile, negli ultimi giorni i prigionieri vennero trattati con estrema durezza; la notte tra il 3 e il 4 luglio i prigionieri vennero svegliati e fatti rivestire; si spiegò loro che dovevano essere nuovamente trasferiti, al pianterreno li attendeva invece il plotone d’esecuzione. Lo zar e la sua famiglia affrontarono anche quest’ultima prova con dignità e coraggio, rivolgendo a Dio un’ultima preghiera. Insieme a Nicola II vennero fucilati la moglie Aleksandra, le figlie Olga, Tatjana, Marja, Anastaija, l’erede al trono Aleksej, il medico e tre fedeli servitori. Morirono il 17 luglio 1918.