a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 23 dicembre la chiesa celebra san Giovanni da Kęty (Jan z Kęt), nato a Kęty (Polonia) il 23 giugno 1390. A Cracovia compì i suoi studi, si laureò e fu ordinato sacerdote. Ottenne la cattedra universitaria, in qualità di docente di teologia, Giovanni partecipò a vari contraddittorio, ricevendo da queste dispute più insulti che obiettive argomentazioni. Lasciò l’insegnamento per qualche anno e si dedicò al servizio pastorale presso la parrocchia di Olkusz, distinguendosi per spirito di preghiera e di penitenza e per la sua carità verso i poveri. Quando la sua umiltà e la sua pazienza venivano messe a dura prova, senza perdere l’abituale serenità di spirito, si limitava a rispondere: «Deo gratias!». In qualità di precettore dei prìncipi della casa reale polacca, in mododo particolare curava l’educazione del principe Casimiro, talvolta non poteva sottrarsi dal partecipare a qualche festa mondana. Nelle piccole come nelle grandi avversità, Giovanni ebbe sempre di mira qualcosa di ben superiore al prestigio, alla carriera e al benessere materiale: «Più in alto!» ripeteva sovente, volendo esprimere con questo semplice motto il suo programma di vita ascetica. Tra le virtù preferite da Giovanni, c’era proprio la carità verso i poveri e gli affamati: molti affermarono di averlo visto entrare nei rifugi dei poveri di Cracovia, sfamandoli, portandogli ciò di cui avevano bisogno. Durante uno dei suoi pellegrinaggi a Roma, la diligenza su cui viaggiava venne fermata e depredata da un gruppo di banditi, che infestavano la campagna romana. Anche Giovanni venne privato del suo gruzzolo; ma accortosi che in fondo alla tasca gli era rimasta ancora una moneta d’argento, rincorse i banditi, dicendo: «Avete dimenticato questa». Il biografo, che riferisce l’episodio, afferma che i banditi, commossi, restituirono l’intera refurtiva. Decedette a Cracovia, durante la Messa della vigilia di Natale. Morì il 24 dicembre 1473, a 83 anni; patrono della Polonia.
23 dicembre: san Niccolò Fattore (Nicolás Factor), nacque a Valencia (Spagna) il 29 giugno 1520 e studiò musica e pittura, fu autore di dipinti a soggetto sacro, nello stile, subì l’influenza del manierista Juan Vincente Macip. Nel 1537, a 17 anni, entrò nell’Ordine dei Frati Minori, nella sua città, e venne ordinato sacerdote nel 1544 e chiese di essere inviato in terra di missione, ma i superiori decisero di impiegarlo nell’opera di conversione dei musulmani di Spagna. Lavorò soprattutto come predicatore e confessore, fu guardiano e maestro dei novizi, poi il re Filippo II lo nominò direttore spirituale del convento di clarisse della capitale, Madrid, dove stavano suore appartenenti alla migliore nobiltà di Spagna. Dopo Madrid, ricoprì lo stesso ruolo a Gandía. Si imponeva grandissime penitenze, il suo cibo era quasi sempre pane ed acqua. Cadeva spesso in estasi e aveva il dono della profezia. Tra i testimoni che furono ascoltati durante il suo processo di beatificazione vi furono san Pasquale Baylon e san Luigi Bertrand. Il mondo angelico gli era particolarmente familiare: non solo fu favorito da frequenti apparizioni del suo Angelo custode, ma anche tutti gli spiriti celesti dei cori angelici venivano ad aiutarlo durante la celebrazione della Santa Messa. Più di una volta, quando si preparava a celebrare la Messa, i fedeli videro gli Arcangeli splendenti che gli porgevano con rispetto la casula e la stola. Una volta, mentre stava predicando ad Argentera nel giorno di san Michele, un giovane ragazzo di 17 anni lo vide contornato da una corte di Angeli che, scortando la Vergine Maria, proiettavano su di lui dei fasci luminosi. Quando evocava nella sua omelia il patriarca san Francesco, questi spiriti celesti si inchinavano davanti alla statua del Santo che si trovava di fronte alla sua sedia. Infine, dopo l’omelia, si disponevano intorno all’altare maggiore, prostrati intorno al celebrante e vi restavano fino alla Comunione. Poco prima di morire, tre religiosi intesero dei cori di voci magnifiche provenire dalla finestra dell’infermeria della stanza dove era ricoverato Nicolás. Incuriositi entrarono dentro, e constatarono che questi canti provenivano proprio dal letto in cui giaceva Nicolás che gli disse: «Fratelli miei, restate calmi e mantenete il segreto». Morì il 23 dicembre 1583.
23 dicembre: sante Vittoria e Anatolia, due giovani romane di nobile famiglia, cristiane e consacrate a Dio, si opposero al matrimonio con due pretendenti patrizi. I due uomini imprigionarono allora le giovani nelle proprie tenute in Sabina: Vittoria, venne uccisa e sepolta in una caverna, presso la città sabina di Trebula Mutuesca (l’odierna Monteleone Sabino), Anatolia presso la città sabina di Thiora. Vittoria, romana di nobile famiglia nata intorno al 230, da bambina ricevette il battesimo. A 20 anni venne chiesta in sposa dal nobile Eugenio. Sua cugina per parte di madre, Anatolia, di qualche anno più anziana, anch’essa chiesta in sposa da un patrizio, la convinse a divenire “Vergine di Cristo”. Vittoria vendette i suoi gioielli e le vesti preziose, ne distribuì il ricavato ai poveri e rinunciò definitivamente al matrimonio. Eugenio, che mirava ad ottenere i beni di Vittoria, non la denunciò come cristiana, perché in tal modo i beni di Vittoria secondo la legge sarebbero stati confiscati. Egli infatti aveva un duplice scopo: sposare Vittoria ed entrare in possesso del suo patrimonio. Secondo il racconto della Passio, vi era nel territorio di Trebula un tremendo dragone il cui sbuffo pestifero faceva morire uomini ed animali. Domiziano, signore di Trebula, si recò nel posto dove era stata esiliata Vittoria, e la pregò di salvare la città dal drago. Dopo aver scacciato il drago, Vittoria entrò nella spelonca del dragone e convocando il popolo disse: «Ascoltatemi, in questo luogo costruitemi un oratorio e datemi come socie le vostre fanciulle vergini». In poco tempo più di 60 ragazze divennero sue discepole; la santa insegnava loro inni, salmi e cantici. L’esilio, affrontato serenamente da Vittoria durò tre anni e si protrasse fino a tutto il 253. Trascorsi però tre anni Eugenio la denunciò al pontefice del Campidoglio di nome Giuliano, il quale inviò a Trebula un commissario di nome Taliarco. Quest’ultimo andò da Vittoria con una statuetta e la obbligò ad adorare la dea Diana. Al suo rifiuto la uccise trafiggendola con la spada. Tutta la cittadinanza fece lutto per sette giorni; i sacerdoti cristiani, con tutto il popolo, la seppellirono coprendola con unguenti e teli di lino. La misero dentro un sarcofago e lo deposero nella grotta dove aveva cacciato il dragone. Morì il 18 dicembre del 253.