Oggi 23 novembre la chiesa festeggia san Clemente I, 4º vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica, generalmente noto come Clemente da Roma, terzo successore di Pietro, dopo Lino e Anacleto. Nacque a Roma verso la metà del I secolo e fu educato nella fede pagana. Un giorno Clemente udì una predica dell’apostolo Barnaba e trovò quello che ormai da tempo andava cercando. Barnaba lo battezzò e lo condusse da san Pietro, che col tempo imparò ad apprezzare il giovane Clemente e lo designò quale suo successore. Alla morte di Pietro, Clemente rifiutò di prendere il posto del principe degli apostoli. Così vescovi di Roma, prima di lui, divennero Lino e Anacleto, finché intorno all’88 Clemente non cedette alle pressioni del popolo e del clero e fu consacrato pontefice. Sappiamo che il suo pontificato durò nove anni, sotto gli imperatori Domiziano e Nerva. Ma il suo posto è grande nella vita della Chiesa, che lo venera come uno dei Padri apostolici, per l’unica sua opera sicura: la Lettera ai Corinti. A questa lettera era attribuito un carattere quasi canonico. All’inizio di questo testo, scritto in greco, Clemente si rammarica che «le improvvise avversità, capitate una dopo l’altra», gli abbiano impedito un intervento più tempestivo. Queste «avversità» sono da identificarsi con la persecuzione di Domiziano: perciò la data di composizione della lettera deve risalire a un tempo immediatamente successivo alla morte dell’imperatore e alla fine della persecuzione, vale a dire subito dopo il 96. L’intervento di Clemente era sollecitato dai gravi problemi in cui versava la Chiesa di Corinto: i presbiteri della comunità, infatti, erano stati deposti da alcuni giovani contestatori. Potremmo quindi dire che questa lettera costituisce un primo esercizio del Primato romano dopo la morte di san Pietro. La lettera di Clemente riprende temi cari a san Paolo, che aveva scritto due grandi lettere ai Corinti, e in particolare la dialettica teologica, perennemente attuale, tra indicativo della salvezza e imperativo dell’impegno morale. Prima di tutto c’è il lieto annuncio della grazia che salva. Il Signore ci previene e ci dona il perdono, ci dona il suo amore, la grazia di essere cristiani, suoi fratelli e sorelle. E’ un annuncio che riempie di gioia la nostra vita e dà sicurezza al nostro agire: il Signore ci previene sempre con la sua bontà, e la bontà del Signore è sempre più grande di tutti i nostri peccati. Occorre però che ci impegniamo in maniera coerente con il dono ricevuto e rispondiamo all’annuncio della salvezza con un cammino generoso e coraggioso di conversione. Poco si sa degli ultimi anni di Clemente. Secondo una tradizione del IV secolo, sarebbe stato affogato con un’ancora al collo in Crimea, suo luogo d’esilio, per ordine di Nerva, mentre Eusebio di Cesarea e san Girolamo concordano dicendo che Clemente morì nel 101 e non parlano né di esilio né di martirio.
23 novembre: san Colombano, nacque a Navar (Irlanda), secondo la leggenda, la madre, in attesa della sua nascita, avrebbe visto un sole uscire dal suo seno per recare al mondo una grande luce. Colombano andò a scuola presso un maestro laico, apprendendo a leggere e a scrivere con notevole impegno, applicandosi alle arti liberali delle lettere, agli studi grammaticali, alla retorica, alla geometria e alle Sacre Scritture. Come gli altri giovani si occupava inoltre dei lavori della famiglia e apprese anche a cavalcare e ad usare l’arco e la spada. A 15 anni decise di farsi monaco, nonostante l’opposizione della madre, prese i voti molto presto al monastero di Bangor (Irlanda del Nord), sotto il severo abate Comgall, dedito a pesanti penitenze corporali. Ma Colombano sentiva una profonda necessità di evangelizzazione e appena ne ebbe la possibilità partì immediatamente con l’obiettivo di diffondere i Vangeli nel mondo. Sbarcò sulle coste dell’Armorica e poi in Francia verso il regno di Austrasia alle corti dei re merovingi. Fondò qui tre monasteri, Luxeuil, Fontaine e Annegray, che seguirono la cosiddetta “regola colombiana”, che a differenza di quella benedettina non era dedita solo al lavoro dei campi e alla preghiera, ma anche all’istruzione e all’assimilazione della conoscenza. Purtroppo ci fu un forte contrasto con l’episcopato francese che lo accusò di travisare troppo la tradizione verso un suo personale culto celtico-irlandese, che aveva un diverso calcolo delle festività e della Pasqua. La stessa regina Brunechilde lo volle rimpatriare nella sua terra d’origine. Colombano però riuscì a fuggire direttamente dalla scorta che lo stava per imbarcare e si diresse lungo la valle del Reno. Fondò clandestinamente altri monasteri, Remiremont, Jumièges, Noirmoutier, Saint-Omer. Si espanse lungo il Lago di Costanza, giungendo fino in Italia dove si diresse al cospetto di papa Bonifacio IV. Ma fu a Milano che trovò un’autentica approvazione direttamente dal re longobardo ariano Agilulfo e da sua moglie la regina Teodolinda, che lo accolsero a braccia aperte. Questi gli chiesero un aiuto sulla questione tricapitolina, ovvero su un avvicinamento tra il popolo longobardo e la chiesa vaticana. L’alleanza ebbe successo e come ricompensa gli venne regalato un ampio suolo per costituire un centro di vita monastica a Bobbio. La stessa regina Teodolinda salì sul Monte Penice con Colombano per mostrargli il territorio e fargli promettere di dedicare lì in cima, una chiesetta dedicata alla Madonna. Colombano giunse a Bobbio nell’autunno del 614 con il proprio discepolo Attala, riparò l’antica chiesa di San Pietro e vi costruì attorno delle strutture in legno, che costituirono il primo nucleo dell’abbazia di San Colombano. Nella quaresima del 615 Colombano si ritirò nell’eremo di San Michele presso Coli, lasciando a Bobbio come suo vice Attala e tornando al monastero solo alla domenica. Colombano morì a Bobbio, nell’abbazia che aveva fondato, all’età di 75 anni, il
23 novembre 615; patrono dei motociclisti.
23 novembre: santa Felicita e sette fratelli, La Passio di Felicita, composta tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, narra che, la ricca vedova romana (ma nativa di Alife, secondo il Martirologio Beneventano), fu accusata di pratiche cristiane durante l’impero di Antonino Pio. Dapprima fu interrogata da sola dal prefetto di Roma Publio, senza risultato. Il giorno dopo fece condurre la madre e i sette figli (Gennaro, Felice, Filippo, Silano, Alessandro, Vitale e Marziale) presso il foro di Marte, ma Felicita esortò i figli a rimanere saldi nella fede. Non riuscendo a piegare la loro costanza, li assegnò a diversi giudici incaricati di eseguire la sentenza di morte, che fu eseguita con diversi supplizi. Gennaro, dopo essere stato percosso con verghe e straziato nel carcere, fu ucciso con flagelli piombati; Felice e Filippo furono ammazzati con bastoni; Silvano fu gettato in un precipizio; Alessandro, Vitale e Marziale furono puniti con sentenza capitale. Infine anche Felicita fu uccisa-
23 novembre: beata Margherita di Savoia, nacque nel castello di Pinerolo (Torino) il 21 giugno 1390. Margherita fu la prima delle figlie di Amedeo di Savoia, principe di Acaia, signore del Piemonte, e della moglie Caterina di Ginevra. A 12 anni rimase orfana e passò sotto la tutela dello zio Ludovico, che per mancanza di eredi maschi diretti, succedette al defunto principe Amedeo. Primo pensiero di Ludovico di Savoia fu di porre fine alle lunghe discordie fra Piemonte e Monferrato servendosi della nipote Margherita, per un’alleanza matrimoniale. Il 17 gennaio 1403, a 13 anni Margherita sposò Teodoro II marchese di Monferrato, della dinastia dei Paleologi, all’epoca aveva 39 anni e già due figli. Ella, in cuor suo, già era orientata al chiostro, riconfermata nel suo proposito dallo spagnolo domenicano san Vicent Ferrer, che ascoltò le prediche nel periodo che il santo trascorse nel Monferrato; tuttavia si sacrificò per il bene delle popolazioni, stremate per le guerre e le carestie. Il marito Margherita, il cui primo pensiero fu sempre e solo rivolto a Dio, accettò di sacrificarsi per amore del Signore e per amore del suo prossimo: se Cristo era stato crocefisso anche le sue aspirazioni potevano essere crocefisse. Nei quindici anni di matrimonio si prodigò per smussare le angolosità dello scontroso marito, si dedicò all’educazione dei figliastri e con eroica carità soccorse poveri, malati, appestati. Rimase vedova nel 1418 e divenne sovrana reggente del Monferrato, stimata e amata. Terminato il suo compito, si ritirò nel suo palazzo di Alba (Cuneo), per condurvi vita monacale sotto la regola di San Domenico (Terziarie domenicane), insieme alle sue più fedeli dame per dedicarsi alla preghiera e alle opere di carità, rifiutando perciò la proposta di nozze avanzata da Filippo Maria Visconti. Ad Alba fondò il monastero delle domenicane di Santa Maria Maddalena. Pochi anni dopo, nel 1450, Margherita e le sue compagne furono autorizzate a passare dal Terz’Ordine Domenicano al Second’Ordine (Monache domenicane propriamente dette). Un giorno ebbe una visione: Cristo le porgeva tre frecce, recanti ciascuna una scritta: malattia, calunnia, persecuzione, che realmente subirà. Le tre frecce, che attraversano il suo stemma nobiliare, ricordano che solo la croce accettata con Cristo conferisce alla persona la vera, imperitura nobiltà, che i secoli non possono cancellare. Nonostante le molteplici difficoltà e sofferenze, per circa venticinque anni superò tutto con la preghiera, lo studio, la carità. Formidabile fu il ruolo che assunse di riappacificazione unitiva nella Chiesa: si prodigò con successo affinché suo cugino Amedeo VIII, eletto antipapa dal Concilio di Basilea con il nome di Felice V, abbandonasse la sua posizione. Tornò pertanto a guidare l’Ordine Mauriziano da lui fondato nel monastero sulle rive del lago di Ginevra e fu creato cardinale, nonché legato pontificio. Margherita si spense ad Alba il 23 novembre 1464, circondata dall’affetto e dalla venerazione.