a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 26 luglio la chiesa festeggia i santi Gioacchino e Anna, sono nella tradizione i genitori della beata Vergine Maria e i «nonni materni» di Gesù. Secondo la tradizione, i genitori della Vergine Maria erano Gioacchino e Anna, ma nessuno di loro è citato nella Sacra Scrittura, tuttavia sono nominati per la prima volta nel cosiddetto Libro di Giacomo, un vangelo apocrifo sull’infanzia di Gesù, conosciuto anche come Protovangelo di Giacomo, che risale probabilmente alla metà del II secolo e non ha alcun valore storico. Questo testo afferma che Gioacchino era un anziano sacerdote e viveva con la moglie Anna a Gerusalemme; un giorno mentre stava portando le sue offerte al Tempio come faceva ogni anno, il gran sacerdote Ruben respinse l’offerta, perché Gioacchino ed Anna erano sposati da 20 anni e non avevano ancora generato un figlio; secondo la mentalità ebraica del tempo, il gran sacerdote scorgeva la maledizione divina su di loro, perciò erano sterili. Questi ne fu profondamente umiliato, ma pochi giorni dopo, mentre era nei campi al lavoro, gli apparve un angelo che gli annunziò la nascita di un figlio, anche Anna ebbe la stessa visione e non molto tempo dopo diedero alla luce Maria, la futura madre di Gesù. I due si incontrarono alla porta aurea di Gerusalemme: gli autori medievali vedono nel loro casto bacio il momento dell’Immacolata concezione di Maria. Secondo la tradizione Anna e Gioacchino, con Maria bambina, abitavano a Gerusalemme nei pressi dell’attuale Porta dei Leoni, nella parte nord orientale della città vecchia. Oggi nel luogo dove avrebbero abitato e dove sarebbe cresciuta Maria sorge una chiesa costruita dai crociati nel XII secolo, dedicata a sant’Anna e custodita dai Padri Bianchi. Giulio II autorizzò la celebrazione della festa di san Gioacchino, ma san Pio V la soppresse, e solo con Gregorio XV fu ripristinata; Leone XIII la innalzò al grado di doppio di seconda classe. In Occidente, dal 1913 Gioacchino era festeggiato separatamente il 16 agosto, ma dal 1969 è celebrato con sant’Anna il 26 luglio. Mentre la festa della “concezione di sant’Anna” era celebrata a Napoli durante il X secolo e subito dopo in Irlanda e Inghilterra. Nel 1584 la festa fu estesa alla Chiesa universale, e Gregorio XV la dichiarò obbligatoria. Il culto di sant’Anna, considerata protettrice delle donne senza figli, delle madri incinte e dei minatori.
26 luglio: santa Bartolomea Capitanio, nacque a Lovere (Bergamo) il 13 gennaio 1807. Fin da bambina, progetta giochi e si improvvisa maestra tra le compagne, prefiggendosi già piccoli scopi di bene; adolescente, interpreta nel sorteggio della pagliuzza più lunga, proposto in una ricreazione, la chiamata alla santità e risponde con una decisione audace: «Voglio farmi santa, gran santa, presto santa». Trascorre 4 anni nell’educandato delle Clarisse per completare gli studi, nonostante l’opposizione del padre, uomo dal carattere violento che più volte durante la settimana si ubriacava, bestemmiava e malmenava la moglie scacciandola persino di casa. Bartolomea si era diplomata maestra nel 1822 e aveva cominciato a insegnare alle alunne della prima elementare nello stesso educandato. Pur essendo attratta dalla vita claustrale, rientrò tuttavia in famiglia dopo due anni e aprì una piccola scuola per bambine povere nella sua casa, elaborando un metodo didattico che associava l’insegnamento scolastico a quello spirituale. Per venire incontro al disorientamento della gioventù femminile, seguendo il suo intuito profetico, sensibile a quello che chiamava un bisogno «grande ed estremo» dei suoi tempi, fondò un oratorio e una congregazione, sotto la protezione di Maria Bambina, imponendosi un severo programma di vita ascetica. Con il tempo, grazie anche al suo carattere dolce, riuscì a condurre il padre ad una vita più tranquilla: sarebbe morto nel 1831 pentito dei suoi errori. La giovane alternava la sua attività educativa a quella assistenziale in un piccolo ospedale per i poveri, fondato a Lovere dalle sorelle Caterina (che assunse poi in religione il nome di Vincenza) e Rosa Gerosa, dove era stata chiamata in qualità di direttrice ed economa. Dopo l’inaugurazione dell’ospedale eretto in Lovere con donazioni testamentarie lasciate da Ambrogio, zio di Caterina Gerosa, confortata dalla sapiente guida di don Angelo Bosio, sacerdote colto, pastore delle anime, comprende che la sua strada della santità varcherà i confini di Lovere per aprirsi al mondo. Nel 1829, dopo avere steso una nuova regola spirituale, guadagnò al suo progetto di creare una famiglia religiosa dedita alla carità anche Caterina Gerosa, che aveva 23 anni più di lei ed inizialmente era riluttante ad affrontare questa avventura. Nel 1832, essendo cresciuto il numero degli infermi, dei poveri e della gioventù da soccorrere, Bartolomea e Caterina superando non poche difficoltà anche in famiglia, acquistarono un edificio in abbandono, che era appartenuto alla nobile famiglia Gaia, e la mattina del 21 novembre, alla presenza del parroco di Lovere, di don Bosio, di alcune amiche e di qualche parente, vi si tenne la cerimonia di fondazione dell’Istituto. L’Istituto sarà tutto fondato sulla Carità, fondato sulla norma e sugli esempi lasciati da Nostro Signore Gesù Cristo, fondato sui voti di castità, obbedienza e povertà. Lì si concentrarono le opere avviate in precedenza: la scuola gratuita per le figlie del popolo, l’orfanotrofio con dieci alunne, le riunioni festive, l’assistenza ai bisognosi e ai malati. Nel giugno 1833 le due fondatrici si unirono in una società legale, con tanta fiducia nella Provvidenza, che venne riconosciuta dal governo austriaco. Più difficile fu ottenere il placet dell’autorità ecclesiastica, nonostante i tentativi di mediazione di don Bosio: le regole scritte da Bartolomea furono infatti sostituite per sette anni da quelle delle Suore di Carità di Santa Giovanna Antida Thouret. Bartolomea però non ebbe il tempo di vedere gli sviluppi straordinari della sua opera, perché morì dopo soli 8 mesi dalla fondazione. Tornando dalla chiesa parrocchiale dove aveva partecipato con le sue ragazzine all’adorazione del Santissimo Sacramento esposto, si sentì male e il medico la trovò affetta da bronchite e da un indebolimento generale dell’organismo dal quale non si riebbe più. Morì il 26 luglio 1833, a 26 anni.
26 luglio: beato Tito Brandsma (al secolo Anno Bjoerd Brandsma), nacque a Bolsward (Olanda) il 23 febbraio 1881, da una famiglia cattolica. Dopo il ginnasio presso i francescani di Megen, a 17 anni entrò nell’Ordine Carmelitano, nel convento di Boxmeer, prendendo il nome di Tito, e nel 1905 fu ordinato sacerdote. L’anno successivo andò a Roma a frequentare gli studi di Filosofia all’Università Gregoriana dove conseguì la laurea in Filosofia nel 1909. Tornato nei Paesi Bassi, si dedicò all’insegnamento ai giovani frati carmelitani e contemporaneamente ebbe modo di inserirsi nel mondo del giornalismo, collaborando con varie testate olandesi. Nel 1919 divenne redattore-capo del giornale Città di Oss. Nel 1923 fu fondata l’Università Cattolica di Nimega dove Tito venne richiesto come professore. Tito studia la spiritualità di santa Teresa d’Avila, viaggia attraverso l’Europa e l’America, diventa giornalista e assistente nazionale dei giornalisti cattolici. Nel 1932 diventò Rettore Magnifico di quell’Università e nel 1936 fu nominato dal futuro cardinale Johannes de Jong, metropolita d’Olanda, Assistente Ecclesiastico dei giornalisti cattolici, incarico che tenne fino alla sua morte. Nel 1933 il nazismo va al potere in Germania. Nel 1940 i Paesi Bassi furono invasi e occupati dalla Germania nazista di Adolf Hitler, per cui, sia come insegnante all’Università che come Assistente dei giornalisti cattolici, ebbe modo varie volte di scontrarsi con l’ideologia nazista. Lo fece in maniera chiara e senza tante paure. Tanto che, per la sua strenua difesa della libertà religiosa dei giornali cattolici, i nazisti vollero tappargli la bocca facendolo prigioniero. Il 19 gennaio 1942 la Gestapo arresta Tito a Nimega. Poi il 19 giugno 1942 il religioso arriva al Lager di Dachau. Hanno tentato di farlo cedere, ma invano. A Dachau, Tito è lieto nei tormenti, perché ha con sé l’ostia della comunione, dono di preti tedeschi deportati. “Predica” sottovoce a gruppetti di compagni, recita a memoria le parole della Messa. Qui finì i suoi giorni con una fiala di acido fenico iniettatagli nelle vene da un’infermiera. All’infermiera del campo di sterminio di Dachau, che gli praticò l’iniezione mortale, parlò con amore e confidenza, insegnandole a pregare per invocare l’aiuto della Madonna e le offrì la sua corona del Rosario. La donatrice di morte rispose: «Non prego, io non so pregare!», rispose lei. E Tito la rassicurò: «Basta che tu dica: prega per noi peccatori». Morì il 26 luglio 1942, a 61 anni.