a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 27 luglio la chiesa festeggia san Celestino I, 43º vescovo di Roma e Papa della Chiesa cattolica; nacque a Roma nel 380 circa, nulla conosciamo della sua giovinezza, tranne che era romano e il Liber pontificalis lo dice figlio di un certo Prisco e originario della Campania. Alla morte di papa Bonifacio I, il 10 settembre 422, Celestino fu elevato al soglio papale il 10 settembre 422, dove regnò per 9 anni, 10 mesi, e 16 giorni. Nonostante i tempi turbolenti che correvano a Roma, fu eletto senza alcuna opposizione, come si evince da una lettera di sant’Agostino d’Ippona (Epistola CCLXI), scrittagli poco dopo la sua elevazione. Con zelo Celestino I difese la purezza della fede contro gli errori pelagiani e semipelagiani e contro quelli di Nestorio. La sua azione vigorosa riuscì a cacciare i capi pelagiani dall’Occidente, combattendoli fin nella lontana Britannia dove, nel 429, mandò in missione Germano, vescovo di Auxerre. A proposito di Giuliano d’Eclano e di altri vescovi pelagiani rifugiatisi a Costantinopoli l’11 agosto 430, Costantino, alle sollecitazioni insistenti del patriarca Nestorio, rispose ricordandogli che quell’eresia era stata già condannata. Alludeva all’accettazione delle condanne papali del pelagianesimo da parte di Attico, penultimo predecessore di Nestorio nella sede costantinopolitana. Prospero d’Aquitania ed Ilario, laici ma profondi conoscitori del pensiero di sant’Agostino, lo informarono che la dottrina intorno alla grazia e alla predestinazione trovava opposizione nella Gallia in Cassiano e nei suoi monaci, fautori di quella corrente che prenderà in seguito il nome di semipelagianesimo. Allora Celestino I, il 15 maggio 431, prese le difese di sant’Agostino, morto l’anno precedente, con parole che consacrarono l’autorità del santo. Energico comportamento tenne anche nei confronti di Nestorio. Questi, chiamato nel 428 a succedere a Sisinnio nella sede di Costantinopoli, era discepolo della scuola antiochena e accentuava la distinzione dell’umano e del divino in Cristo; sì da ammettere in lui non solo due nature, ma addirittura due persone, unite soltanto moralmente, e pretendeva, inoltre, che Maria fosse chiamata “madre di Cristo (Christotókos), non già “madre di Dio” (Theotókos). Nel concilio romano, tenuto nell’agosto 430, Celestino I condannò gli errori di Nestorio e gli impose di sconfessarli entro 10 giorni dall’intimazione della sentenza: della sua esecuzione fu incaricato san Cirillo. L’imperatore però volle che la questione fosse decisa da un concilio, che si raccolse ad Efeso dal 22 giugno al 31 luglio 431. Celestino I mandò i vescovi Proietto e Arcadio e il prete Filippo in qualità di legati che avevano soltanto il compito di salvaguardare i diritti della Sede Apostolica, mentre per il resto, dovevano attenersi alle decisioni di san Cirillo. I legati papali giunsero ad Efeso quando il concilio aveva già condannato e deposto Nestorio, ma vollero che la decisione del concilio romano fosse considerata definitiva, «ben sapendo che Pietro è alla testa della fede comune e di tutti gli apostoli» (Epistola ad Constantinopolitanos). Il papa, nelle lettere in data 15 marzo 432 dirette ai padri conciliari, all’imperatore, al nuovo patriarca Massimiliano, al clero e al popolo di Costantinopoli espresse tutta la sua esultanza per trionfo della verità sull’errore e indicò come dovevano essere trattati Nestorio e i suoi seguaci. Sono queste le ultime opere del suo operoso pontificato. Al pontificato di Celestino I si attribuisce l’introduzione della salmodia nella liturgia romana della messa, prima della “missa fidelium”, in aggiunta alle letture tratte dalle epistole di Paolo e dal vangelo: il canto dei salmi era eseguito a cori alternati da tutto il popolo. Veniva così recepito un uso che in Oriente e a Milano, dal tempo di sant’Ambrogio, era ormai una consuetudine. Morì il 27 luglio 432; protettore contro le malattie degli organi genitali.
27 luglio: san Pantaleone di Nicomedia, nacque a Nicomedia (attuale Izmit, Turchia) nella seconda metà del III secolo, da una famiglia benestante. Figlio di un senatore, persona facoltosa ed eminente in Nicomedia, di religione pagana; la madre, invece, era cristiana, una donna forte nella fede che non rinnegò mai per compiacenza al marito, pur rimanendo sempre al suo fianco. Ebbe una buona educazione classica e professionale, avviato allo studio della medicina, sotto la guida del celebre medico Eufrosino. La sua intelligenza gli fece raggiungere ben presto una solida competenza nella scienza medica, tanto che lo stesso imperatore Massimiano ne fu tanto colpito da consentire che Pantaleone, anche se giovanissimo e non avesse terminato il corso regolare degli studi, potesse esercitare la professione di medico. L’educazione famigliare e l’ambiente sociale ricco di tanti segni cristiani avevano predisposto l’animo di Pantaleone ad avvicinarsi al cristianesimo. La vera fortuna di Pantaleone non fu tanto quella di aver raggiunto l’ideale di essere medico, ma quella di aver incontrato Ermolao, un sacerdote, che aveva formato una specie di comunità cristiana nella città. Pantaleone dialogando con Ermolao, gli parlò della madre cristiana, delle lacrime da lei versate nel lasciarlo adolescente, del paganesimo del padre e della sua frequenza nella casa imperiale a contatto con il maestro pagano Eufrosino. Il sacerdote gli fece scoprire a poco a poco, attraverso la lettura e la riflessione del Vangelo, le grandi mete della santità. Pantaleone, uomo di scienza e figlio di un pagano colto ed altolocato, pur illuminato nello spirito, non accettò la nuova dottrina se non dopo lunghe riflessioni sul Vangelo. La conversione di Pantaleone si andava preparando lentamente nel dialogo, nella riflessione e nella preghiera. Il proposito di conversione, maturato dopo prolungata riflessione, trovò incomprensione, risentimento e serio ostacolo in suo padre, attaccatissimo al paganesimo. Ma nell’animo del giovinetto cresceva il desiderio di ricevere il battesimo. Secondo la leggenda Pantaleone dopo aver visto risuscitare alla sola invocazione del Cristo un bambino morto per il morso di una vipera, si fa battezzare. Alla morte del padre Pantaleone, distribuì il patrimonio ai servi e ai poveri, diventò il medico di tutti, suscitando per l’esercizio gratuito della professione l’invidia e il risentimento dei colleghi e la conseguente denunzia all’imperatore. L’imperatore con lusinghe e rimproveri tenta di dissuadere il giovane dal preferire Cristo ad Asclepio. Pantaleone propone una prova tra i sacerdoti pagani e lui: intorno a un paralitico, appositamente convocato, inutilmente si affannano i sacerdoti, invocando tra gli dei anche Asclepio, Galeno e Ippocrate; Pantaleone invece guarisce nel nome di Cristo l’ammalato. Il miracolo suscita la conversione di molti e l’ostinazione dei sacerdoti e dell’imperatore, che alle lusinghe fa seguire una lunga serie di tormenti: condannato al rogo, ma le fiamme si spensero, poi ad essere immerso nel piombo fuso, ma il piombo si raffreddò miracolosamente; a questo punto Pantaleone fu gettato in mare con una pietra legata al collo, ma il masso prese a galleggiare; venne condannato ad fieras, ma le belve che avrebbero dovuto sbranarlo si misero a fargli le feste; fu poi legato ad una ruota, ma le corde si spezzarono e la ruota andò in frantumi. Si tentò anche di decapitarlo, ma la spada si piegò e gli aguzzini si convertirono. Pantaleone pregò Dio di perdonarli. Infine, quando egli diede il suo consenso, gli fu tagliata la testa. Morì il 27 luglio 305; patrono delle ostetriche e dei medici (insieme ai santi Cosma e Damiano).
27 luglio: san Raimondo Zanfogni detto Palmerio,nacque a Piacenza nel 1140. Avviato giovanissimo dai genitori al mestiere di ciabattino, dopo la morte del padre, a 15 anni, partì con la madre per un pellegrinaggio in Terra Santa, dal quale rientrò a Piacenza solo, essendo la madre morta sulla via del ritorno; a questo tempo risale il soprannome di Palmerio, poiché Raimondo giunse nella sua città con una palma in mano. Rientrò da solo a Piacenza, dove fu in qualche modo assistito dai parenti, poi si sposò presto, riprese il suo mestiere di ciabattino, dal matrimonio nacquero cinque figli, ma morirono tutti, forse a causa di un’epidemia, nacque in seguito un sesto figlio, Gerardo, dopo la nascita del piccolo morì anche la moglie di Raimondo, a questo punto, l’uomo lasciò la casa al figlioletto, che fu affidato ai parenti e partì in pellegrinaggio, prima a San Giacomo di Compostella, poi a Pavia e a Roma, da dove pensava di ripartire per la Terra Santa. Ma qui ebbe come una seconda conversione, e si trovò spinto dal Signore stesso a rinunciare al suo progetto e a tornare a Piacenza per dedicarsi alle opere di misericordia. Iniziò così nel 1178 la seconda parte della sua esistenza, interamente consacrata al servizio dei poveri. Organizzò l’assistenza ai poveri, mettendo in piedi prima un’attività di pronto soccorso per passare poi ad opere stabili, come case per i nullatenenti e un ospizio per i malati. Per sostenere le sue iniziative che richiedevano continui ampliamenti, cominciò a insistere, a pregare, a chiedere a chi poteva dare, predicando contro l’avidità dei ricchi per le strade di Piacenza. Divenne ben presto il portavoce dei poveri nella città e il loro protettore ufficiale di fronte ai giudici iniqui e ai potenti. Le autorità comunali finirono per piegarsi davanti al suo prestigio e incominciarono a consultarlo in tutti gli affari concernenti i poveri. Raimondo, non lontano dal primitivo ospizio dove accoglieva anche bambini abbandonati, fondò una sorta di “beghinaggio” per le donne senza risorse e per le prostitute pentite. Sul piano politico si oppose con la sua predicazione ai conflitti tra i partiti e rimproverò il vescovo di non condannarli. Per fermare le ostilità intervenne anche nella guerra tra Piacenza e Cremona, ma i cremonesi lo fecero prigioniero e lo gettarono in carcere, dal quale poi lo liberarono con scuse, sentendosi dire da tutti: «Avete imprigionato un santo!». Morì il 27 luglio 1200, a 60 anni.
27 luglio: beata Maria Maddalena Martinengo (al secolo Margherita Martinengo), nacque a Brescia il 5 ottobre 1687, dalla nobile famiglia dei conti da Barco di Brescia. Rimasta orfana della madre dopo pochi mesi dalla nascita, Margherita fu affidata alle cure e all’educazione delle Suore Orsoline di Santa Maria degli Angeli. Nel 1698 entrò come educanda nel monastero agostiniano di Santa Maria degli Angeli, che raccoglieva il fiore dell’aristocrazia femminile bresciana, dove dette prova della sua precoce vocazione, in nome di una fedele imitatio Christi. Superata la contrarietà del genitore abbracciò la vita monastica tra le suore cappuccine di Nostra Signora della Neve di Brescia, l’8 settembre 1706, prendendo il nome religioso della più illustre penitente, Maria Maddalena. Nel monastero scelse di dedicarsi alle faccende più umili e faticosi (cucina, portineria). Dopo un periodo, tra il 1711 e il 1722, in cui le furono assegnati gli incarichi più umili del convento, Maria Maddalena fu eletta nel 1723 maestra delle novizie, carica che rivestì anche nel 1727 e nel 1731. Nonostante le sue ripetute resistenze verso obblighi terreni che la distogliessero dalla vita contemplativa, Maria Maddalena seppe amministrare il ruolo di abbadessa con singolare equilibrio, coniugando l’azione apostolica, con l’affinata e personalissima esperienza di una mistica affettiva e di immolazione che, al culmine della immedesimazione con le sofferenze di Cristo. Nel 1729, dando credito alle maldicenze di alcune suore, il confessore don Antonio Sandri, dette alle fiamme il manoscritto delle Massime spirituali quale frutto pericoloso di una mente «superba ed eretica». La conseguenza fu una sospensione punitiva da ogni incarico comunitario, che poco dopo, però, fu revocata dall’autorità vescovile. Dal 1732 fino alla Pasqua del 1737, quando l’acutizzarsi della malattia che l’avrebbe condotta alla morte la indusse alla rinuncia, assurse agli onori di vicaria e abbadessa. Soggetta a prolungati svenimenti le consorelle poterono constatare, nel suo corpo martirizzato, i segni delle sue tremende penitenze e delle stimmate di diversi tormenti della passione del Signore. Il tramonto fu rapido e sereno, gioì quando seppe che la fine era imminente ed alle consorelle che piangevano, con tenerezza materna, donava le more che aveva in un piccolo canestro. Pregava con versetti biblici, poi la si udì sussurrare: «Vengo, vengo, Signore!»; serenamente spirò, malata di tubercolosi. Morì il 27 luglio 1737, a 50 anni.