a cura di don Riccardo Pecchia.
30 settembre: san Girolamo, nacque a Stridone, nei pressi di Aquileia, nel 342 d.C., da un’agiata famiglia cristiana che lo educarono alla fede cristiana, dopo aver studiato a Roma, dove ricevette anche il sacramento del battessimo a 25 anni, Girolamo si trasferì dapprima a Treviri, dove conobbe il monachesimo e imparò ad apprezzarlo; poi la vita lo portò ad Aquileia, nei pressi di Venezia, dove nel 370 aderì ad una comunità di ascesi. Nel 373, all’età di 26 anni, lasciò Aquilea e intraprese numerosi viaggi in Oriente. Là visse per qualche tempo nell’isolamento più assoluto in una comunità di monaci nei pressi di Aleppo (odierna Siria), ma i contrasti esistenti tra i monaci lo indussero presto ad andarsene. Fece tappa ad Antiochia, dove fu costretto a fermarsi a causa di una grave malattia, vi rimase fino al 378, frequentando le lezioni di Apollinare di Laodicea e divenendo sacerdote, a 38 anni, ordinato dal vescovo Paolino di Antiochia. Si recò quindi a Costantinopoli, dove poté perfezionare lo studio del greco sotto la guida di san Gregorio Nazianzeno. Girolamo tornò a Roma, nel 382, dove fu segretario di papa Damaso I, che lo incaricò di preparare una completa Bibbia in latino (Vulgata), rivedendo traduzioni anteriori o facendone delle nuove. Non solo gli studi biblici lo tengono impegnato, ma sull’Aventino, nella casa di Marcella, egli riunisce attorno a sé nobili matrone delle quali è maestro spirituale. Alla morte di papa Damaso I, la curia romana contrastò con grande determinazione l’elezione di Girolamo, anche attribuendogli una forte responsabilità nella morte della sua discepola Blesilla. Questa era una nobile ventenne romana, appartenente alla gens Cornelia, che era rimasta vedova ancor fanciulla e che aveva seguito la madre Paola e la sorella Eustochia nel gruppo di matrone che avevano deciso di seguire la vita monastica con le rigide regole di Girolamo, morendo ben presto, probabilmente a causa dei troppi digiuni. Data la singolarità dell’evento e la grande popolarità della famiglia di Blesilla, il caso sollevò un grande clamore. Gli avversari di Girolamo affermarono che le mortificazioni corporali teorizzate erano semplicemente degli atti di fanatismo, i cui perniciosi effetti avevano portato alla prematura morte di Blesilla. Caduta la sua candidatura, sul finire del 384, fu eletto papa il diacono Siricio. Deluso nel 385 Girolamo lasciò Roma e si stabilì a Betlemme, per tornare alla quiete studiosa, con quel gruppo di vedove che nel corso degli anni, a Roma, si erano raccolte intorno alla sua persona. Grazie ai fondi della ricca vedova Paola, Girolamo fondò a Betlemme un monastero maschile, dove andò a vivere, e tre femminili. Dal 385 alla morte visse nel monastero da lui fondato. Qui visse dedicandosi alla traduzione biblica, alla redazione di alcune opere ed all’insegnamento ai giovani. Nel 404 morì la sua discepola Paola, che verrà poi venerata come santa. Girolamo morì, a 73 anni, il 30 settembre 420 nel suo monastero di Betlemme.
30 settembre: san Francesco Borgia, nacque a Gandia (Spagna), 28 ottobre 1510, nella famosa famiglia Borgia di origini spagnole. Suo padre era Juan de Borja y Enriquez e suo nonno paterno, Juan Borgia, secondo duca di Gandia, era uno dei figli di papa Alessandro VI, il quale quindi era suo bisnonno; il nonno materno era l’arcivescovo di Saragozza Alfonso, figlio naturale del re Ferdinando II d’Aragona. Crebbe a Saragozza e all’età di 12 anni fu inviato come paggio a Tordesillas; qui assisteva la regina Giovanna la Pazza, che, dopo la scomparsa del marito, si era qui ritirata insieme alla figlia, l’infanta Caterina. Dal 1528 fu a Valladolid presso Carlo V, entrò presto nelle grazie dell’imperatrice Isabella, che lo nominò marchese di Lombay. Così, nel 1528, a 18 anni Francesco Borgia sposa Eleonora de Castro, nobile e virtuosa quanto lui, dalla quale avrà 8 figli. Tanta è la stima della coppia imperiale che, durante le lunghe assenze di Carlo V dalla Spagna, Francesco svolge le funzioni di consigliere dell’imperatrice. La rettitudine con la quale governa gli porterà rancori e inimicizie tra la nobiltà. Nel maggio del 1538 l’imperatrice muore ed egli, incaricato di scortare il feretro da Toledo a Granada, è profondamente colpito dall’orazione funebre sulla futilità dei beni di questo mondo pronunciata da san Giovanni Ávila, cui si affida per la direzione spirituale. Il 26 giugno 1539 diventa Viceré di Catalogna. Già il popolo comincia a chiamarlo “il duca santo” per l’onestà e la giustizia con cui governa; marito esemplare, padre affettuoso, terziario francescano, recita ogni giorno il rosario, si comunica settimanalmente e si confessa ogni mese. Nel 1542 a Barcellona, la duchessa ascolta predicare i primi gesuiti giunti da Roma e li conduce al palazzo del marito. Profondamente colpito dal metodo degli Esercizi Spirituali, si convince che la cristianità, travolta da nemici esterni e interni, non si salverà per mezzo di battaglie politiche o riforme ecclesiastiche, ma che solo per mezzo d’una profonda e personale conversione a Gesù. Usa pertanto tutta la sua influenza affinché Paolo III nel 1548 promulghi una speciale approvazione pontificia degli Esercizi di sant’Ignazio. Nel 1546 muore la sua amata sposa e prende la risoluzione di diventare gesuita. Nel 1548 professa i voti nella Compagnia di Gesù con speciale dispensa papale di rimanere ancora nella vita laicale fino a quando non avesse assolto ai suoi doveri di genitore. Il 23 maggio 1550, dopo aver lasciato agli eredi tutti i suoi beni, a Roma è ordinato sacerdote. Rifiuterà la nomina a cardinale offertagli da ben tre papi. Diviene uno dei più importanti collaboratori di sant’Ignazio di Loyola, è incaricato di controllare la diffusione dell’Ordine nella penisola Iberica e nel Nuovo Mondo. Nominato esecutore testamentario di Carlo V, il suo ritorno a corte viene mal sopportato da molti aristocratici che vogliono sbarazzarsene facendolo condannare per eresia dall’Inquisizione, ma sfugge all’intrigo grazie a papa Pio IV che nel 1561 gli ordina di tornare a Roma. Il 2 luglio 1565 è eletto terzo Preposito Generale della Compagnia di Gesù. Ha dato un grande impulso all’attività missionaria in India, Brasile e Giappone. Sotto il pontificato di san Pio V è incaricato di assistere il cardinal nepote Michele Bonelli nelle sue missioni diplomatiche, ma questi viaggi furono fatali per la sua salute cagionevole, muore a Roma il 30 settembre 1572.
30 settembre: santa Rachele, dal nome ebraico רחל (Raḥel), in latino Rachel, che significa pecorella, fu la seconda moglie di Giacobbe, la moglie amata (Gen 29,15-30) perché, secondo la tradizione, i loro figli avrebbero dato origine agli allevatori di ovini. Quando Giacobbe si rifugiò presso lo zio, per fuggire da Esaù, si innamorò di lei, lavorò sette anni presso lo zio Labano per averla in moglie. Ma Labano lo ingannò dandogli in moglie prima Lia, la primogenita, da cui poi ebbe sei figli: Ruben, Simeone, Levi, Giuda, Issaccar e Zabulon ed una figlia Dina. Giacobbe reagì duramente, ricordando a Rachele che la vita è un dono divino. Lia trascurata era però feconda, Rachele amata era invece sterile. Dice la Bibbia che a questo punto Dio si ricordò di Rachele, la esaudì e la rese feconda. Essa concepì e partorì Giuseppe (Gen 30,22-24), venduto dai fratelli come schiavo in Egitto, e un secondo figlio con travaglio difficile che ne causò la morte. Qualche minuto prima di morire Rachele diede a suo figlio il nome Ben-Oni che Giacobbe muterà in Beniamino (Gen 35, 16-20). Fu sepolta lungo la strada Efrata, identificata oggi come Betlemme. Sulla sua tomba Giacobbe eresse una stele. Ancora oggi all’ingresso di Gerusalemme esiste un piccolo mausoleo dedicato a Rachele e la sua tomba è meta di pellegrinaggio. Rachele fa parte del grande programma di Dio e come tale anch’essa è considerata persona santa e oggi con tutti gli antenati di Gesù, uomini e donne, giusti e fedeli alla legge divina; patrona delle madri che hanno perso un figlio.
30 settembre: santa Sofia, il nome Sofia deriva dal greco Sophia (Sapienza), è venerata insieme alle figlie Pistis (Fede), Elpis (Speranza), Agape (Carità); la più antica notizia sulla loro esistenza e venerazione risale alla fine del sec. VI, come autore il presbitero Giovanni, il quale raccolse gli olii sui sepolcri dei martiri romani al tempo di san Gregorio Magno; qualche studioso mette in dubbio l’esistenza reale delle quattro sante, volendo inserirle invece come figure allegoriche delle virtù di cui portavano il nome. Altri ritengono che Sofia sia nata a Milano e visse tra la fine del I secolo e il principio del II e subì il martirio con le tre figlie sotto l’imperatore Adriano. Si può affermare con certezza che morì a Roma. Sofia sposò Filandro, giovane e ricco senatore. Dal suo matrimonio nacquero tre figlie, alle quali furono dati i nomi di Fede, Speranza e Carità, le tre virtù cristiane. Dopo pochi anni di matrimonio, morì Filandro e Sofia decise di lasciare Milano. Distribuì ai poveri le sue ricchezze e partì per Roma. Campo del suo lavoro fu il servizio agli eroici confessori della fede cristiana, con l’assidua visita alle prigioni, dove moltissimi erano rinchiusi. Tale sua condotta non sfuggì all’occhio dell’imperatore Adriano, il quale volle davanti al suo tribunale madre e figlie. La madre prima e le tre figlie dopo, professarono la fede nel Cristo Salvatore, disposte a sopportare qualunque supplizio, non rinnegarono la fede ricevuta nel Battesimo. Alle promesse lusinghiere come alle minacce del giudice, dettero prova di nulla temere, desiderose soltanto di ricevere il Battesimo di sangue, che è il martirio. La madre venne denudata e fustigata crudelmente, dopo che le fu impresso sulla fronte il marchio dell’infamia. Allontanata la madre, il giudice interrogò separatamente le tre figlie, sperando di poterle far deviare dalla religione di Cristo, ma loro obbediscono alla sua esortazione: «Non abbiate paura figlie mie! Siate forti in Cristo!». Prima Fede, che ha 12 anni, viene interrogata per prima. Rifiutando le lusinghe del giudice è a sua volta denudata, frustata, le viene tagliato un seno dal quale, al posto del sangue fuoriesce latte. Inflitti altri tormenti senza cedere, alla fine viene decapitata. Poi davanti al giudice arriva Speranza, di 10 anni, anch’essa confessa la sua fede in Cristo e viene gettata in un una fornace, ma di fronte all’estinzione delle fiamme, viene decapitata. In ultimo toccò a Carità, di 9 anni, la sua sorte è la stessa. La madre Sofia, che ha assistito a tutte le sofferenze delle figlie, ne recupera i corpi e dà loro sepoltura fuori città. Sofia morì, tre giorni dopo, di crepacuore mentre pregava sulla tomba delle figlie.
30 settembre: sant’Amato di Nusco (al secolo Amato di Landone), nacque intorno al 1003 a Nusco (Avellino), da una nobile famiglia longobarda di Nusco, gli anni della sua infanzia passarono in seno alla famiglia, dove i genitori gli insegnarono la via del bene, iniziandolo alla conoscenza di Dio e alla pratica delle virtù cristiane. All’età di 7 anni, secondo l’uso del tempo, il piccolo Amato, fu affidato alle cure di un sacerdote, per gli studi. Nell’età giovanile decise di intraprendere lo stato sacerdotale. I genitori acconsentirono a malincuore, essendo figlio unico, lo condussero a Salerno per presentarlo all’arcivescovo Giovanni III. L’arcivescovo volle ordinarlo sacerdote in giovanissima età, pur non avendo ancora raggiunto l’età canonica; ritornò a Nusco e pur vivendo in un ambiente nobile egli rivolse tutto il suo pensiero ai poveri e agli oppressi. Si distinse per la fama della sua dottrina e della sua santità, tanto che ben presto si divulgò nelle campagne e nei borghi circostanti. Nel 1048 l’arcivescovo di Salerno Alfano I eresse la diocesi di Nusco e consacrò sant’Amato suo primo vescovo. Guidò la comunità di credenti, prodigandosi in una continua opera di carità e divulgazione della fede cristiana. Durante il suo ministero riunì fra le mura del castello di Nusco gli abitanti delle contrade ad esso adiacenti, ma non dimenticava le necessità degli abitanti delle altre terre della diocesi, anche quelli erano suoi figli ed anche essi avevano un’anima, che non doveva né poteva essere trascurata; restaurò molte chiese preesistenti e ne edificò diverse nuove, tra cui la chiesa cattedrale che venne da lui dedicata al Protomartire San Stefano di cui era devoto, grazie al suo zelo. Instancabile nella sua attività, il santo vescovo appariva sempre e dappertutto amoroso e buon pastore delle anime, mostrandosi pronto nel soccorrere, benigno nel compatire, amorevole con tutti, per guadagnare a Cristo i suoi figlioli. Visitava spesso le chiese da lui costruite e le altre, disseminate in lungo e in largo per la diocesi.vi portava l’ardore e l’entusiasmo, con l’esempio e con la parola, con i sacrifici e le preghiere, infondeva in ciascuno che incontrava amore, adoperandosi perché risplendesse la giustizia, la santità e la pace. Nella seconda metà dell’anno 1093, si ammalò gravemente e una mattina di settembre, fece venire presso di sé un notaio. Morti i genitori, Amato era diventato padrone di tutte le loro sostanze e, sentendosi prossimo alla morte, volle spogliarsene, per donarle alla sua Chiesa. Prima di spirare volle celebrare la Santa Messa, benedisse per l’ultima volta, tutti insieme, i suoi figli. Con voce commossa e con accento paterno, esortò tutti alla carità, alla giustizia, alla santità. Dopo la celebrazione fu accompagnato a casa, come in trionfo, e dopo pochi giorni morì, il 30 settembre dell’anno 1093, fra i singhiozzi e gemiti degli astanti.