Oggi 5 aprile la chiesa festeggia san Vincenzo Ferreri (Vicent Ferrer), nacque a Valencia (Spagna) il 23 gennaio 1350, da una nobile famiglia vicina alla casa reale di Barcellona. A 18 anni, il 6 febbraio 1368, decise di abbracciare la vita religiosa e scelse l’Ordine dei Frati Predicatori (domenicani) per realizzare al meglio il suo ideale apostolico: predicare la parola di Dio in ogni angolo della terra. Proseguì gli studi presso la casa di formazione del suo ordine a Barcellona, e poi a Lleida e a Tolosa, e dal 1385 insegnò teologia a Valencia. Due mesi dopo il suo ritorno definitivo da Avignone a Roma, papa Gregorio XI muore nel marzo 1378. A Roma, i cardinali, in maggioranza francesi, eleggono il napoletano Urbano VI (Bartolomeo Prignano), ma questi si scontra subito con i suoi elettori, e la crisi porta a un controconclave in settembre, nel quale gli stessi cardinali eleggono papa Clemente VII (Roberto di Ginevra) che tornerà ad Avignone. Così comincia lo scisma d’Occidente, che durerà 39 anni. La Chiesa è spaccata, i regni d’Europa stanno chi con Urbano e chi con Clemente. Santa Caterina da Siena è con il papa di Roma, mentre Vincenzo sta con quello di Avignone, al quale ha aderito il suo re. Nei primi anni dello scisma lo vediamo collaboratore del cardinale aragonese Pedro de Luna, che è il braccio destro del papa di Avignone, e che addirittura nel 1394 gli succede, assumendo il nome di Benedetto XIII. Il nuovo pontefice scelse Vicent come suo confessore personale e consigliere, e lo nominò penitenziere apostolico: il frate rifiutò però la nomina a cardinale che Benedetto XIII gli offrì. Nel settembre del 1398, durante l’assedio di Carlo VI di Francia ad Avignone, Vicent cadde malato, secondo una leggenda devozionale, sarebbe stato guarito miracolosamente da Gesù e dai santi Francesco e Domenico, che lo inviarono nel mondo a predicare, invitando i peccatori a convertirsi in attesa dell’imminente giudizio universale. Ottenuto il permesso di lasciare la corte pontificia, e ricevuto il titolo di legato a latere, trascorse la sua vita passando di terra in terra, predicando nelle piazze, nelle chiese e nei campi davanti a plebei, semplici, nobili e scienziati e ricorrendo a miracoli per convertire i peccatori, salvare dai pericoli, risuscitare i morti, comandare la natura e guarire gli ammalati. Vicent si immedesimava a tal punto nella propria missione, da autodefinirsi nelle sue prediche “l’angelo dell’Apocalisse”. Fu proprio la predicazione a renderlo particolarmente conosciuto: pur parlando soltanto in valenziano, il frate veniva compreso da tutti i presenti. Fu uno dei restauratori dell’unità, ma non solo dai vertici. Mentre le gerarchie si combattevano, lui manteneva l’unità tra i fedeli. Anni di predicazione, milioni di ascoltatori raggiunti dalla sua parola viva, che mescolava il sermone alla battuta, l’invettiva contro la rapacità laica ed ecclesiastica e l’aneddoto divertente, la descrizione di usanze singolari conosciute nel suo viaggiare. E non mancavano, nelle prediche sul Giudizio Universale, i tremendi annunci di castighi, con momenti di fortissima tensione emotiva, ottenendo, grazie alla sua abilità oratoria, al tono apocalittico dei suoi sermoni e alla fama di taumaturgo, numerose conversioni, soprattutto di musulmani ed ebrei. Andò camminando e predicando così per 20 anni, e la morte non poteva che coglierlo in viaggio. Morì il 5 aprile 1419 a Vannes (Francia), all’età di 69 anni.
5 aprile: sant’Irene di Tessalonica, nacque ad Aquileia (Udine) nel III secolo, da genitori pagani di nobili origini. Irene era la più giovane di tre sorelle; le altre due erano Agape e Chionia. Secondo la tradizione, questi non erano i loro nomi originali: divenute cristiane, furono battezzate e furono loro attribuiti i nomi di Agape, nome con il quale i greci chiamavano la Carità, Chionia, che in greco significa neve, a ricordo della purezza e Irene, che simboleggia la pace. Alla giovane Irene furono affidati i Libri Sacri contenenti la parola di Dio, ed ella fu una custode scrupolosa: li depose dentro delle cassette e li posò insieme ai tanti scrigni che racchiudevano i suoi gioielli. Nel febbraio del 303 l’imperatore, ordinò la distruzione di tutti i libri sacri. Le tre sorelle non tradirono la loro fede: abbandonarono la loro casa e la loro famiglia e si rifugiarono in montagna, dove trascorsero un breve periodo pregando e soffrendo per i mali che il cristianesimo stava patendo. Poco tempo dopo quando il pericolo sembrava ormai scampato, ritornarono in città. Non sono chiare le motivazioni che spinsero le sante a trasferirsi a Tessalonica (Grecia) e le circostanze entro le quali esse furono catturate; esistono molte versioni dei fatti, nessuna delle quali è da ritenersi attendibile. Nel 304 Agape, Chionia e Irene si trovavano a Tessalonica, e qui furono imprigionate in seguito all’editto imperiale e rinchiuse in carcere. Era la prima metà di marzo del 304; le tre sante sorelle furono presentate davanti a Dulcezio, governatore di Tessalonica e presidente del tribunale, insieme ad altri cristiani: Agatone, Eutichia, Cassia e Filippa. L’accusa mossa contro di loro era di non aver rispettato l’editto di Nicomedia, sottoscritto dall’imperatore Diocleziano; esso ordinava a tutti i cittadini romani di cibarsi delle carni che erano state offerte in sacrificio agli dei. Tutti gli accusatori furono allora spinti a compiere il loro atto di devozione verso gli dei romani ed invitati dal presidente a mangiare le carni delle bestie immolate agli dei, ma essi persistettero nel loro rifiuto. Allora Dulcezio, visto l’ostinato rifiuto da parte degli accusati di rinunciare alla loro fede cristiana, pronunciò la sentenza: «Ordino che Chionia e Agape siano messe al rogo». Le due sorelle, salite sulla pira, affidarono le loro anime al Signore; Dio, commosso dalle loro estreme e disperate invocazioni, non volle far patire loro ulteriori pene rispetto a quelle che avevano già sofferto. Le fiamme uccisero Chionia e Agape, ma lasciarono miracolosamente intatti i loro corpi e le loro vesti. Passati alcuni giorni, furono rinvenuti gli scrigni appartenenti ad Irene contenenti i Testi Sacri, i quali, sempre secondo l’editto imperiale, dovevano essere stati distrutti; Irene fu nuovamente condotta di fronte a Dulcezio, il quale la sottopose ad un lungo ed estenuante interrogatorio. Irene non ebbe alcun timore ad affrontare la durezza del presidente, che la invitò nuovamente ad obbedire all’editto imperiale. Dulcezio emise allora la sentenza contro di essa: «Che sia esposta nuda in un bordello, ricevendo dal palazzo del governatore un unico pane al giorno». Irene rimase nel lupanare per qualche giorno, ma nonostante la sua giovane età e la sua avvenenza, lo Spirito Santo la proteggeva, nessuno osò avvicinarla. Il governatore emise la sua ultima sentenza contro Irene: «Poiché Irene non ha voluto sacrificare, sia bruciata viva». Irene arrivò sul luogo del supplizio, pregando e cantando salmi ed inni al Signore. Morì il 1 aprile 304 d.C.