a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 5 ottobre si festeggia san Placido Anici, nacque a Roma nel 515, figlio del senatore Tertullo, della gens degli Anici, si distingueva soprattutto per sapienza, fortezza e prudenza, così da essere chiamato “Padre della Patria” da tutto il popolo romano. La madre di Placido era Faustina nobildonna messinese, sorella di Elpide, quest’ultima famosa al tempo per aver composto alcuni Inni Sacri per la Chiesa e per essere moglie del famosissimo filosofo Severino Boezio, anch’egli morto per la fede in Cristo. Come dire una famiglia ricca di virtù e santità. Tertullo e Faustina, ebbero 4 figli, i Santi Martiri: Placido, Euticchio, Vittorino e Flavia. Placido dopo la prima formazione cristiana quando compì 7 anni, fu presentato dal padre a san Benedetto da Norcia, fondatore dell’ordine dei benedettini e suo grande amico, per essere da lui erudito. Insieme a Placido fu affidato al santo norcino un altro giovane, Mauro, figlio di Equizio, nobile romano. I due diventarono grandi amici e Mauro ebbe a considerare Placido un fratello essendogli quest’ultimo più piccolo. La sua innocenza angelica lo rendeva carissimo a tutti e specialmente a san Benedetto. Placido faceva progressi notevoli in santità ed eccelleva nell’esercizio delle virtù. Le sue doti erano, l’umiltà e l’obbedienza, quando ne ebbe l’età anch’egli si diede all’arte dell’educare. Piaceva a tutti i monaci contemplare questo fanciullino per i corridoi del chiostro, e intrattenersi con lui in amabili conversazioni, pronto sempre all’obbedienza verso tutti i confratelli e attento nel compiere tutti i servizi anche i più umili che a lui venivano affidati. La vita di Placido ci viene raccontata ricca di episodi straordinari e fatti prodigiosi. Uno di questi è l’acqua fatta scaturire dalla dura roccia, dietro preghiera rivolta a Dio, perché i monaci non fossero costretti ad andare lontano per attingerla con gravi difficoltà data la particolare posizione del monastero di Subiaco. San Benedetto lasciando Subiaco, appunto, volle portare con sé a Montecassino, il fanciullino, da un lato per completare la sua educazione alla santità e dall’altro presago della missione di fede che presto gli avrebbe affidato quella di aiutare un popolo, quello messinese. Placido per volere dello Spirito Santo, fu mandato a Messina, dove il padre aveva moltissime proprietà ed era anche il luogo natio della mamma Faustina, che Placido ebbe ad amare più di se stesso, quella la sede dove avrebbe edificato il primo monastero benedettino fuori dal ceppo cassinese. Placido, che non aveva ancora 30 anni, lasciò Cassino con altri due compagni: Gordiano e Donato. Si incamminarono sorretti dall’ubbidienza, confortati da una grande fede, animati da una luminosa speranza. Gli esordi furono felici: i fondatori sbarcarono a Messina, raggiunsero il dominio, costruirono un monastero sotto il titolo di San Giovanni Battista e si dedicarono con fervore alla vita conventuale secondo la regola elaborata dal Padre. Nel monastero l’abate Placido non era un superiore nel senso comunemente inteso, ma un Padre ed un Maestro. La vita spirituale dei monaci era una emanazione della vita stessa dell’Abate, che dava alla comunità da lui condotta una fisionomia tutta propria. Sotto la sua amorevole autorità, la comunità salì presto a trenta religiosi. La fama della santità e dei miracoli dell’abate di Messina giunse sul continente. E suscitò in Eutichio e Vittorino, fratelli di Placido, e in Flavia, sua sorella, un forte desiderio di rivederlo. Si trattò d’un incontro felice, che si protrasse in terra solo per pochi giorni, ma si prolungò in cielo: non appena, infatti, la famiglia degli Anici si trovò riunita, Mamuscia, pirata saraceno, sbarcò sulla costa con la sua banda. Avvistato il monastero, vi si precipitò, ne sfondò le porte e intimò ai religiosi e ai loro ospiti, fatti comparire in sua presenza, di rinunciare a Cristo. Tutti rifiutarono. Perirono in crudeli tormenti, confessando il nome di Gesù. Un solo monaco fu risparmiato, un certo Gordiano. Tanta misericordia da parte di fanatici cosi feroci fa sorgere qualche dubbio. Questo fratello fu un rinnegato oppure usurpò la qualità di compagno di san Placido? Invero, fu lui che, dopo che i carnefici se ne furono andati, diede ai martiri sepoltura nella chiesa conventuale e, raggiunta Costantinopoli, scrisse gli Atti di questi santi, con la data del martirio. Morì il 5 ottobre 539.
5 ottobre: santa Faustina Kowalska (al secolo Helena Kowalska), nacque a Głogowiec (Polonia) il 25 agosto 1905, da una povera e devota famiglia di contadini. Fin dall’infanzia si distinse per la devozione, per l’amore alla preghiera, per la laboriosità, per l’obbedienza e per una grande sensibilità verso la povertà umana. La sua vocazione religiosa si manifestò fin dall’età di 7 anni. Poté frequentare una scuola solo per poco più di tre anni. Ancora adolescente lasciò la famiglia per lavorare come domestica ad Aleksandrów e a Łódź provvedendo così al proprio sostentamento e aiutando la famiglia. A 18 anni chiese ai genitori il permesso di entrare in convento, ma la famiglia necessitava del suo aiuto e quindi non acconsentì. Faustina cercò di ubbidire ai genitori e partecipò alla vita mondana trascurando le ispirazioni interiori della grazia. Subito dopo si decise per la vita religiosa. Dopo essere stata respinta da molti conventi, finalmente, il 1 agosto 1925, fu ammessa nella Congregazione delle Suore della Beata Vergine Maria della Misericordia a Varsavia, prendendo il nome di Maria Faustina. Il 30 aprile del 1926 iniziò il noviziato Nella Congregazione visse tredici anni, soggiornando in diverse case, in particolare a Cracovia, Płock, e Vilnius. Svolse mansioni di cuoca, giardiniera e portinaia e osservò fedelmente la regola religiosa. Ma al tempo stesso è destinataria di visioni e rivelazioni che i suoi confessori le suggeriscono di annotare in un diario. E tuttavia non crede che questi fatti straordinari siano un marchio di santità. Adottò uno stile di vita severo e i digiuni indebolirono la sua salute, già cagionevole. Si ammalò di tubercolosi che invase i polmoni e l’apparato digerente e dovette essere ricoverata due volte in un sanatorio vicino a Cracovia. Di carattere riservato, i devoti le attribuiscono un’intensa vita mistica: nel suo Diario scrive che Gesù le attribuisce l’appellativo di “Segretaria della Divina Misericordia”. Nel 1938 aggiunge di aver avuto un dialogo con Dio, in cui si lamenta del fatto che la sua congregazione non abbia nemmeno una santa, e riceve questa risposta: «Tu la sei». Morì il 5 ottobre 1938, a 33 anni.
5 ottobre: beato Alberto Marvelli, nacque a Ferrara il 21 marzo 1918, da una famiglia profondamente religiosa, ma anche impegnati nella politica, ecclesiale e carità. Nel 1930 la famiglia si trasferisce a Rimini dove Alberto frequenta l’oratorio salesiano e fece parte dell’Azione Cattolica della sua parrocchia, aumentando così la sua formazione religiosa, che avrà molta influenza nella sua vita spirituale. Nel 1933 muore improvvisamente il padre; nel mese di ottobre dello stesso anno ha iniziato a scrivere un diario, che è la storia della sua vita interiore, il suo percorso spirituale, la sua esperienza con Dio. La sua appartenenza all’Azione Cattolica arricchisce la sua spiritualità; nel 1935 è delegato diocesano; nel 1937 fa parte della Federazione dell’Università Cattolica Italiana e nel 1946 diventa presidente dei laureati cattolici. Nel 1941 si laureò in ingegneria meccanica all’Università di Bologna, poi iniziò a lavorare alla Fiat di Torino. Nel capoluogo piemontese avviò diverse iniziative: conferenze, pellegrinaggi, visite ai poveri con la Conferenza di San Vincenzo. L’Italia entra guerra e Alberto parte militare, praticando in caserma un intenso apostolato. Può cambiare molte cose: risveglia il senso della fede nei cuori di molti. Finisce la guerra e Alberto torna a Rimini quando il 1 novembre 1943 un terribile bombardamento distrugge la città. Alberto diventa l’operaio della carità soccorre i feriti, prendendoli dalle rovine, distribuisce ai poveri tutto ciò che ha e che può raccogliere, salva molti giovani dalla deportazione dei tedeschi. Dopo la liberazione di Rimini entrò nella prima giunta costituita dal locale Comitato di Liberazione come assessore ai Lavori Pubblici. Fu eletto capo della sezione autonoma del Genio civile e presidente del Consorzio idraulico. Ebbe il ruolo delicato di presiedere la commissione che distribuiva gli alloggi agli sfollati. Fu eletto consigliere comunale alle prime elezioni libere. Quando a Rimini rinacquero i partiti, si iscrisse alla Democrazia Cristiana. Nel 1945 entrò a far parte della “Società Operaia” fondata da Luigi Gedda. Fu presidente dei Laureati Cattolici, vicepresidente dei Giovani di Azione Cattolica, e membro delle Conferenze di San Vincenzo. Costituì una cooperativa di lavoratori edili, la prima cooperativa “bianca” nel suo territorio. Una sera d’ottobre, rientrando in bicicletta da un comizio elettorale, è investito da un camion militare. Morì il 5 ottobre 1946, a 28 anni.
ottobre: beato Bartolo Longo, nacque a Latiano (Brindisi) il 10 febbraio 1841. Fin da bambino si rivelò ricco di ingegno, vivace. Per gli studi scolastici fu mandato al collegio dei Padri Scolopi a Francavilla Fontana. Completò gli studi a Lecce e a Napoli, dove conseguì la laurea in Legge all’età di 23 anni. In quegli anni, a Napoli, soprattutto nell’ambiente accademico, vi era un forte anticlericalismo. Bartolo, dopo la lettura del libro Le Vie de Jesus del filosofo francese Ernest Renan, aderì alla contestazione anticlericale: giunse ad essere sacerdote spiritista. Tormentato da irrequietezza e depressione riuscì a risollevarsi grazie ad un suo amico del liceo, il professore Vincenzo Pepe, uomo profondamente religioso, che riuscì a strappare al suo amico la promessa di rivolgersi a padre Alberto Radente, un domenicano di fede molto profonda, per confessarsi. Quando si confessò, avvenne la sua conversione che lo portò a scelte radicali. Grazie alla preghiera del Rosario riuscì a rinunciare allo spiritismo e iniziò a condannarlo e a professare la sua fede cattolica. Nel 1864 si laureò in giurisprudenza, tornò al paese natio, abbandonò la professione di avvocato, si prodigò in opere assistenziali, fece voto di castità. Grazie alla divisione patrimoniale familiare, aveva ottenuto una rendita annua di oltre 5.000 lire, una elevata somma per l’epoca, che gli consentì di sostenere periodiche spese di ammalati e bisognosi. Per seguire questa vocazione ad aiutare i bisognosi, tornò a Napoli. Qui ebbe l’incontro decisivo per la grande opera a cui era chiamato, fu, nel 1872, nella casa di santa Caterina Volpicelli con la contessa Marianna De Fusco, donna impegnata in opere caritatevoli ed assistenziali. Alla contessa, vedova di soli 27 anni, serviva un amministratore per i beni De Fusco. Nell’autunno del 1872 si recò in Valle di Pompei per rinnovare i contratti con i coloni della contessa e un giorno, vagando per quei campi, in contrada Arpaia, Bartolo sentì una voce misteriosa che gli diceva: «Se propaghi il Rosario, sarai salvo!». E subito dopo udì l’eco di una campana che suonava l’Angelus di mezzogiorno; egli allora si inginocchiò sulla nuda terra a pregare, a quel punto ebbe chiara la missione da compiere. Iniziò così a progettare la costituzione di una “pia società” intitolata al Santo Rosario, da realizzarsi proprio lì, in quella valle abbandonata. Nei tre anni successivi tornò tra i pompeiani più volte per diffondere la devozione al Santo Rosario, ma ben presto si rese conto, che a tale scopo, gli occorreva un quadro della Madonna del Rosario. Il 13 novembre1875 si recò così a Napoli per acquistarne uno, ma per puro caso incontrò padre Radente che gli suggerì di andare al Conservatorio del Rosario di Portamedina e di chiedere a suor Maria Concetta De Litala un vecchio quadro del Rosario che egli stesso le aveva affidato anni prima, ma lo sgomento fu grande: la tela era corrosa dalle tarme e logorata dal tempo. Il 13 novembre 1875, l’immagine della Madonna giunse a Pompei, su un carretto guidato dal carrettiere Angelo Tortora e altre volte adibito al trasporto di letame. Nel 1876, su proposta del vescovo di Nola Giuseppe Formisano, iniziò la campagna per costruire un Santuario a Pompei. Intorno a tale costruzione nacque una città mariana, la nuova Pompei, con tipografia, case, ospedali, posta e ufficio per il telegrafo e una stazione ferroviaria. Alla fine della sua vita visse accanto alla basilica presso i suoi bambini, in una stanza piccola e semplice, pregando il rosario quasi ininterrottamente. La contessa De Fusco morì il 9 febbraio 1924. Ciò provocò giorni di terribile sofferenza a Bartolo Longo che, per sfuggire alle possibili ritorsioni da parte degli eredi della nobildonna, si trasferì prima a Napoli, presso il nipote ingegnere, poi a Latiano. Il 23 aprile 1925, dopo molte sollecitazioni da parte dei pompeiani, Bartolo tornò a Pompei. E lo fece come quando vi era giunto per la prima volta nel 1872: senza possedere più nulla, ma stavolta trovando una città in festa ad aspettarlo. Bartolo morì poverissimo, potendo disporre soltanto del proprio lettino poiché tutto il mobilio dell’appartamento era stato inventariato e vincolato da un sequestro conservativo ottenuto contro di lui da parenti in agguato. Qui morì pronunciando le parole: «Mio unico desiderio è vedere Maria che mi ha salvato e che mi salverà dal maligno». Morì il 5 ottobre 1926, a 85 anni.