Carlo Picone del Coordinamento Docenti Irpini, sulla Riforma della scuola del governo Renzi scrive: “Ormai non c’è più tempo. Dopo l’annuncio del governo Renzi di voler approvare il ddl sulla “Buona Scuola” entro il prossimo 11 maggio, sono estremamente serrati i tempi per opporsi ad una “riforma” che, proponendosi di ridisegnare dalle fondamenta il sistema nazionale di istruzione e formazione, minaccia di stravolgere completamente la scuola pubblica, demolendone i principi basilari sanciti dalla Costituzione repubblicana. Poco più di venti giorni prima del redde rationem. Una ventina di giorni per evitare quello che a tutti coloro che operano nel settore nevralgico dell’istruzione appare come un vero e proprio disastro. Un’autentica catastrofe dal punto di vista pedagogico. E dinanzi all’inusitata accelerazione con cui l’esecutivo Renzi sta mettendo mano ad una questione così importante e delicata qual è il sistema educativo italiano, a fronte dei precedenti interventi legislativi – non ultima la tremenda riforma Gelmini (che l’attuale disegno di legge in discussione va a completare) che impiegò un anno e mezzo prima di essere varata -, impedendo peraltro nei fatti una democratica discussione parlamentare e la possibilità di emendare un testo blindato con la claustrofobica modalità di esame del provvedimento esclusivamente in commissione; il mondo della scuola è in grande agitazione, rispondendo con una mobilitazione sindacale finalmente unitaria indetta per il prossimo 5 maggio. In attesa che l’iter supersonico che dovrebbe portare all’approvazione del ddl firmato dai ministri Stefania Giannini, Marianna Madia e Pier Carlo Padoan (rispettivamente dell’Istruzione, della Pubblica amministrazione e dell’Economia) possa essere fermato.
I PUNTI DI MAGGIORE CRITICITA’
Ma se una cospicua parte del mondo della scuola: le migliaia di docenti precari che aspettano da anni la stabilizzazione, guardano all’appuntamento dell’11 maggio, con legittime speranze di fronte alle promesse tante volte ascoltate dal premier Renzi di assumere una cifra consistente ma variabile di insegnanti (dai 140mila iniziali, a 100mila, fino alla cifra più reale di 50mila) da immettere in ruolo; la maggioranza di chi ha letto l’ultima versione della “Riforma”, che si discosta alquanto dall’originario documento della “Buona Scuola”, reso pubblico nello scorso settembre, è in preda all’indignazione. E a ben ragione. Basta osservare i punti schematicamente elencati in un volantino informativo che sta girando per le scuole della provincia di Avellino, in particolare quelle dell’Alta Irpinia, per capire cosa prevede veramente il provvedimento in questione. Ne ricordiamo alcuni punti.
1) ASSUNTI: saranno assunti unicamente docenti vincitori del concorso 2012 (50%) e docenti inclusi nelle GAE (50%), ma solo fino all’annualità 2015-2016 dopo la quale i docenti GAE non assorbiti per indisponibilità di posti, saranno dichiarati decaduti poiché cessa la validità giuridica delle GAE. Restano totalmente esclusi i docenti inclusi in graduatorie d’istituto, idonei 2012, TFA, PAS. (art.8 DDL “Buona Scuola”). Insomma ben altro che un “piano straordinario di assunzioni”.
2) CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO: i docenti precari potranno essere contrattualizzati per un massimo di 36 mesi, oltre i quali non potranno più essere destinatari di contratto (art.12). Davvero una strana idea di “stabilizzazione”.
3) PERSONALE ATA: non viene menzionato, allo stato figurano esclusivamente i tagli imposti dalla finanziaria: meno 2020 unità e impossibilità di sostituzione per assenze da uno a 7 giorni. I collaboratori scolastici sono i grandi assenti nella riforma, malgrado siano essenziali al funzionamento delle scuole.
4) AUTONOMIA E OFFERTA FORMATIVA: il dirigente scolastico assume un ruolo centrale nella determinazione del piano triennale dell’offerta formativa, che elabora ‘sentiti’ il Collegio dei Docenti e il Consiglio d’Istituto (art. 2 ). In barba ai principi fondamentali di autonomia e partecipazione democratica.
5) ORGANICO: Il dirigente sceglie i docenti che risultano più adatti a soddisfare le esigenze della scuola e propone incarichi di durata triennale, rinnovabili ai docenti iscritti negli albi territoriali che includono: neoassunti, docenti di ruolo già in servizio presso altre istituzioni scolastiche, docenti che richiedano la mobilità, soprannumerari (art.7 DDL). La tanto decantata “meritocrazia” passa quindi interamente nelle mani del dirigente, dentro una riforma disegnata completamente su di lui.
6) SUPPLENZE BREVI: il personale della dotazione organica dell’autonomia è tenuto ad assicurare la copertura delle supplenze temporanee fino a 10 giorni. In pratica è l’avvento dei “supplenti di ruolo”.
7) STATO GIURIDICO DEL DOCENTE: non sarà più oggetto di contrattazione ma sarà disciplinato per legge (art.21). Ovvero si sancisce la fine della libertà d’insegnamento e della funzione docente. Bastano questi pochi punti per rendersi conto che ci avviamo alla progressiva “precarizzazione” dell’intero corpo docente, inghiottito in maniera indiscriminata nel già famigerato meccanismo dell'”organico dell’autonomia” o “organico funzionale”, per neoassunti e assunti di lunga data a seguito di domanda di mobilità, dalla durata triennale, all’interno di un sistema completamente incentrato sulla figura di “dominus” o “deus ex machina” del dirigente scolastico. Coi docenti inseriti progressivamente in albi regionali, divisi in liste provinciali e subprovinciali da cui i dirigenti potranno attingere per la loro assunzione e quindi, di fatto ridotti a impiegati alle dipendenze di un datore di lavoro che è solo ed esclusivamente quello che una volta si chiamava “preside”, e che avrà potere “di vita e di morte” sulle carriere e sugli stipendi degli insegnanti.
Il dirigente potrà infatti proporre ai docenti un incarico su cattedra o su organico funzionale in base al curriculum e la proposta potrà essere avanzata anche a docenti che coprono in modo stabile una cattedra in un’altra scuola. Gli incarichi, come detto, si rinnovano ogni 3 anni. Con la mobilità fortemente limitata, dato che i docenti potranno entrare soltanto negli albi territoriali e non chiedere una scuola specifica. Dall’altra, il ddl prevede 50 ore l’anno di formazione obbligatoria per i docenti, con il risibile contentino di un bonus di 500 euro l’anno messo a loro disposizione da spendere per l’autoformazione, tra libri, software, spettacoli teatrali, concerti, corsi di formazione.
Per quanto riguarda poi la retribuzione dei docenti italiani (i meno pagati d’Europa), il cui contratto è congelato da anni, restano gli scatti di anzianità, mentre il disegno di legge apre al merito per il singolo docente, che dovrà essere deciso dal dirigente, valutatore sovrano, sulla base di specifici criteri che vanno dal rendimento degli alunni, l’innovazione nella metodologia didattica, il miglioramento complessivo della scuola (più iscritti?), la qualità dell’insegnamento. Senza dimenticare il rompicapo del “piano digitale” che dovrebbe rinnovare le tecnologie didattiche in tutte le strutture scolastiche, l’anglofilismo denominato “school bonus” e le altre agevolazioni fiscali per le scuole paritarie e chi le frequenta (detrazioni cospicue ed immotivate).
Insomma, la “Buona Scuola” apparsa in autunno come un documento mirato a ridefinire l’istruzione in Italia partendo dalla professionalità docente, prefissandosi la rapida eliminazione della scandalosa piaga delle migliaia di precari (caso unico in Europa), ora si appresta a precarizzare l’intero sistema formativo. Mentre la pedagogia insegna che ogni riforma educativa per essere davvero efficace dovrebbe partire dagli studenti e dalle loro esigenze, ora, nella versione repentinamente trasformata da decreto legge a disegno di legge, si rischia di fare della scuola pubblica italiana una sorta di grande azienda dove i dirigenti divenuti a tutti gli effetti degli imprenditori privati avranno il massimo dell’iniziativa, assumendo e licenziando secondo il loro arbitrio esclusivo.
Neanche il berlusconismo ci era riuscito. Neanche la famigerata “legge Aprea”, dal nome della sottosegretaria all’Istruzione delle ministre Moratti e Gelmini che istituiva la “chiamata diretta” dei docenti da parte dei presidi, si era spinta a tanto. Il modello propagandato dal renzismo è quello del sistema inglese e americano, senza però le considerevoli risorse finanziarie che sia la Gran Bretagna che gli Stati Uniti investono nell’istruzione e nella cultura. Invece, il rischio sempre più concreto che si profila, se si dovesse giungere alla conversione in legge del ddl della “Buona Scuola”, presentato il 27 marzo scorso, è la fine della scuola pubblica italiana come l’avevano immaginata i padri della Repubblica, sempre più vittima di un processo di pauperizzazione, svilita e senza qualità. Una scuola autoritaria e antidemocratica risultato di un processo di privatizzazione che, innescato dal neoliberismo del ventennio berlusconiano, trova in Renzi il suo più apprezzato epigono e continuatore”.