SOLOFRA (AV). Scoperta la Cappella di Santa “Marena” al Vellizzano

SOLOFRA (AV). Scoperta la Cappella di Santa Marena al Vellizzano

Come è nostra abitudine, uniamo alla conoscenza diretta del territorio lo studio della storia ad esso legata, attraverso la ricerca dei documenti e la raccolta di testimonianze. Dopo l’indagine condotta presso l’inghiottitoio del Monte Vellizzano nel Febbraio 2021, il notaio Vitantonio Grassi torna, dal passato, ad indicarci la strada da seguire.

Il ritrovamento dei resti della chiesa di “Santa Marena” (distorsione di “Maria”) è avvenuto per caso, sulla base però di due testimonianze fondamentali che ci hanno portato a formulare l’ipotesi che poi si è rivelata essere realtà. La prima ci è pervenuta, come sempre, dalla Prof. Mimma De Maio, che nei suoi studi ha ritrovato uno dei più importanti manoscritti relativi alla storia della Universitas di Solofra, una vera fotografia del territorio attraverso una descrizione minuziosa della realtà solofrana settecentesca: “Genealogia e Raguagli Istorici dell’antico e moderno Stato di Solofra e sua Università” del 1722 del notaio Vitantonio Grassi, appunto.

La seconda testimonianza proviene dai racconti orali di chi la zona la frequentava già anni fa, per motivi legati alla castanicoltura o al semplice escursionismo, quando i ruderi erano conservati ancora meglio, tanto da poter scorgere tra le rovine alcune parti che sembravano affrescate.

Nonostante queste premesse, data l’alta improbabilità della presenza di una chiesa a circa 800 metri d’altitudine, tutto ciò ci risuonava quasi come una leggenda, tramandata oralmente come tanti racconti del passato da condividere alla luce del fuoco di un camino.
Eppure, trovandoci già in quella zona per l’esplorazione dell’inghiottitoio del Vellizzano, poco distante dalla grotta di San Pietro, abbiamo notato un rudere nei pianori al di sopra di questa. Liberando la zona dai rami e dalle foglie, grazie all’aiuto dei nostri volontari, è venuta fuori una parte della muratura di forma semicircolare, che subito abbiamo identificato essere l’abside, rivolta verso est. La leggenda era diventata realtà.

Se già il notaio Grassi aveva classificato questa struttura come “piccola chiesa diruta” nel 1722, considerata la forma del perimetro visibile e la pozione dell’abside, non abbiamo potuto fare a meno di pensare che l’origine della struttura fosse da collocare in età medievale. Abbiamo raccolto ulteriori dati misurato le cortine murarie, in modo da dedurre le dimensioni della struttura, al netto dei crolli e dello spostamento degli assi delle stesse murature che, a causa del cedimento della fondazione dal lato del vallone e della crescita di vegetazione d’alto fusto sia nell’area interna al perimetro che sulle stesse mura, ha provocato diversi spostamenti delle cortine fuori dalla sede originale. E’ stato, quindi, possibile trarre queste misurazioni: lo spessore delle mura è di circa 55 cm, la lunghezza della navata (internamente) è di circa 7 metri, la larghezza (sempre internamente) è di circa 3,5 metri, mentre il raggio dell’abside di circa 2,1 metri.

Sin dagli albori del cristianesimo, infatti, era diffusa la tradizione di orientare i templi, o più in generale i luoghi di culto, verso la direzione est secondo il criterio denominato “Versus Solem Orientem” in quanto, analogamente ai pagani, anche per i cristiani la salvezza e la rinascita erano collegate alla direzione cardinale orientale.

Gesù Cristo, il Redentore, aveva come simbolo il Sole (Sol justitiae, Sol Invictus, Sol Salutis: e tracce di questo culto antico riecheggiano nel nome stesso di Solofra) e la direzione est era simboleggiata dalla croce, rappresentazione della vittoria sulla morte. La simbologia solare, così direttamente collegata a Cristo, richiedeva, quindi, un’attenta progettazione ed orientamento dei luoghi di culto rispetto alle direzioni astronomiche fondamentali.

Se consideriamo anche il fatto che, attraverso la silvicoltura e la presenza dei lavori appenninici legati alle Neviere, alla Carcare ed alle Carbonaie, era consuetudine trovare insediamenti montani stabili, dovuti alla stagionalità ed alle fasi di queste lavorazioni, bisogna allora pensare che questi uomini e queste donne avessero una quasi fisiologica necessità di rivolgersi a Dio, non potendo raggiungere frequentemente il centro abitato. È spiegabile, quindi, alla luce di queste considerazioni, che una cappella rurale potesse sorgere ad una tale altezza, servita da una sorgente d’acqua nelle immediate adiacenze e da sentieri scavati con fatica lungo gli irti pendii della montagna.

La scelta di costruire un edificio accanto ad una sorgente, soprattutto in ambiente montano, ha da sempre rappresentato una scelta obbligata per ogni tipo di insediamento. Nella valle solofrana si sono succeduti diversi popoli nel corso della storia, ma tutti hanno in comune la scelta di stanziarsi nei pressi di un approvvigionamento idrico, potendo così prosperare ed ampliare il proprio dominio. Le parole del Grassi certificano questo principio oltre ogni ragionevole dubbio: “piccola chiesa diruta con sorgente d’acqua viva” (De Maio M., Ubi dicitur, Solofra, Biblioteca comunale “Renato Serra”, 2005).

Laddove anche il più scettico dei lettori dovesse opporre resistenza, a completamento di questo articolo uniamo lo stralcio della Carta dei monti solofrani del 1826, da noi ritrovata presso l’Archivio di Stato di Avellino. La stessa è stato un supporto fondamentale per il recupero della toponomastica montana dell’epoca e per la redazione del progetto pilota “Sui sentieri di Solofra”, necessario alla formazione della Squadra Sentieri di Solofra che dal 2021 si occupa di riconoscere, tracciare e valorizzare i sentieri storici delle nostre montagne.

– Articolo e foto di Alessandro De Stefano

– Ricostruzione digitale e ricerche d’archivio di Nicolò De Angelis

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