Stamperia del Valentino ripropone, col volumetto dal titolo “Sul Vesuvio. Ascensione tragicomica al cratere in eruzione (1878)”, l’amena cronaca di un’ascesa al vulcano partenopeo, precedente all’entrata in funzione della mitica “Funiculì Funiculà” – avvenuta nel lontano 1880 – filtrata attraverso gli occhi e la sensibilità di un escursionista toscano (pisano per la precisione) Leopoldo Barboni, il quale non seppe esimersi dal trascrivere le sue emozioni al riguardo. E queste impressioni dovettero sembrare talmente interessanti, da indurre un editore livornese – in un periodo in cui le distanze erano ben più accentuate di quanto non lo siano oggi – a pubblicarle. Le abbiamo stanate dal limbo in cui giacevano da quasi centoventicinque anni, per la gioia del lettore odierno. E, credeteci, ne è valsa la pena!
Testi scientifici su “La Montagna”, come affettuosamente la chiamavano i Napoletani di un tempo, non sono mai mancati, agitando gli animi e i portafogli di collezionisti bibliofili. Meno diffusi sono gli scritti di altra imprimitura. Potremmo ricordare la “Spaventosissima descrizione dello spaventoso spavento che ci spaventò tutti coll’eruzione del Vesuvio la sera degli otto d’agosto 1779, ma (per grazia di Dio) durò poco”, donataci dall’arguto abate Ferdinando Galiani, e pochissimo altro. Ma ecco che riaffiora in modo inaspettato questo volumetto, che di napoletano ha ben poco: l’autore, Leopoldo Barboni, era pisano; l’editore, livornese; l’occhio indagatore, inequivocabilmente “foresto” ed incline ad una goliardica ricerca del colore locale. Lo attesta la sequenza di testimonianze che sembrano tratte da un repertorio trito del più scontato folklore. Eppure così non è. L’Autore scrive “di” e “in” un periodo in cui la letteratura folklorica coincideva con la realtà: ostricari, acquaioli, animate contrattazioni, tipi popolari e non, varia umanità di ogni genere sfilò veramente sotto gli occhi scanzonati del Barboni, e lui non fece altro che descriverla – sia pure con l’enfasi d’un visitatore attorniato da un’allegra brigata – nel suo momento di passaggio dalla realtà alla mitografia della Bella Sirena. Anche l’ascesa al Vesuvio qui descritta, a distanza di brevissimo tempo non sarebbe stata più la stessa: non più diverbi con le guide, né cordate, scarpe e vestiti bruciacchiati, ciucci da inforcare a Resina per intraprendere l’avventurosa ascesa; non più la soddisfazione di aver portato a conclusione una vera impresa, che avrebbe inciso profondamente sulla coscienza dell’escursionista di turno, divenendo per lui esperienza indimenticabile: di lì a poco, l’apertura della funicolare vesuviana avrebbe tolto gran parte del bagaglio di poesia e fatica all’impresa. L’entropia, si sa, è inscindibilmente legata al progresso tecnologico. Questa descrizione è dunque l’ultima possibile – almeno in termini di tempo – per gettare uno sguardo su una Napoli che dopo di allora fu relegata irrimediabilmente a una dimensione di nostalgica cartolina. Rimbocchiamoci dunque l’orlo dei calzoni per i signori, o tiriamo su le fruscianti vesti per salire, col nostro Mentore, l’erta costa dello “Sterminator Vesevo”, a suon di maccheroni e inebrianti bicchieri di vino. Ne usciremo forse carichi di quella grazia che la vita della Napoli d’un tempo sapeva dispensare ai suoi fortunati figlioli, come lo stesso Autore ci ricorda attraverso le parole di Paul Mery: “A Napoli il dolore somiglia alla gioia goduta altrove”.