Nei giorni scorsi non sono mancate numerose commemorazioni ufficiali per celebrare il 35° anniversario del terremoto che il 23 novembre del 1980 sconquassò il Sud Italia con un’intensità che superò il 10° grado della scala Mercalli ed una magnitudo pari a 6,9 della scala Richter. Una scossa durata ben 90 secondi fece tremare tutto l’Appennino meridionale, radendo al suolo decine di paesi dell’Irpinia e della Lucania. A 35 anni di distanza il ricordo di quella tragedia ha suscitato ancora emozioni di sgomento e cordoglio, un profondo senso di angoscia, misto a dolore e rabbia. Fu in effetti il più catastrofico cataclisma che ha investito il Sud Italia nel secondo dopoguerra, un’immane sciagura provocata non soltanto dalla furia degli elementi naturali, bensì pure da fattori causali di ordine storico-politico, economico, antropico-culturale. Nei giorni seguenti al sisma, rammento che molti si spinsero ad ipotizzare agghiaccianti responsabilità delle istituzioni politiche, polemizzando sui ritardi, sulle lentezze e sulle carenze nell’opera dei soccorsi, lanciando una serie di accuse che teorizzavano una vera e propria “strage di Stato”. La furibonda violenza tellurica si abbatté in modo implacabile sulle nostre comunità, ma in seguito la voracità degli avvoltoi e degli sciacalli completò lo scempio e la devastazione del territorio. Il ritorno ad uno stato di “normalità” ha costituito un processo assai lento, che ha imposto decenni nei quali le famiglie hanno cresciuto i figli in gelidi container con le pareti rivestite d’amianto. La fine dell’emergenza post-sisimica, il completamento della ricostruzione, lo smantellamento delle aree prefabbricate, sono risultati relativamente recenti. Inoltre, la ricostruzione urbanistica, oltre che stentata, carente, convulsa ed irrazionale, non è stata indirizzata da una pianificazione politica intelligente, volta a recuperare e a consolidare il tessuto della convivenza e della partecipazione democratica, creando quegli spazi di aggregazione sociale che rendono vivibili le relazioni interpersonali e gli agglomerati abitativi, che altrimenti restano solo meri dormitori. Nella fase dell’emergenza le autorità locali attinsero ampiamente agli ingenti fondi assegnati dal governo per la ricostruzione delle zone terremotate. La Legge 219 del 14 maggio 1981 prevedeva un massiccio stanziamento di ben 60 mila miliardi delle vecchie lire per finanziare anche un piano di industrializzazione moderna. Si progettò così la dislocazione di macchinari industriali obsoleti, provenienti dal Nord Italia all’interno di territori impervi e tortuosi, in cui non esisteva ancora una rete di trasporti, infrastrutture e comunicazioni. Fu varato un processo di (sotto)sviluppo che ha svelato nel tempo la sua reale natura, disastrosa ed alienante, i cui effetti sinistri hanno arrecato guasti all’ambiente ed all’economia locali. Per inciso, serve anche ricordare che il contesto territoriale è quello delle aree interne di montagna, che all’epoca erano difficilmente accessibili e poco praticabili. Bisogna altresì ricordare l’edificazione di vere e proprie “cattedrali nel deserto” come, ad esempio, l’ESI SUD, la IATO ed altri insediamenti (im)produttivi, in gran parte falliti, i cui dirigenti, quasi tutti del Nord, hanno installato i loro impianti nelle nostre zone per accaparrarsi i finanziamenti previsti dalla Legge 219. Il progetto di sviluppo del dopo-terremoto era destinato a fallire sin dall’inizio, essendo stato concepito e gestito seguendo logiche affaristiche e clientelari tese a favorire l’insediamento di imprese estranee alla nostra realtà, che non avevano il minimo interesse a valorizzare le risorse e le caratteristiche proprie del territorio, né a considerare i bisogni effettivi del mercato locale, ovvero a tutelare e promuovere le produzioni autoctone, sfruttando manodopera a basso costo ed innescando un circolo vizioso e perverso. Vale la pena di ricordare che le principali ricchezze del nostro territorio sono da sempre l’agricoltura e l’artigianato. Si pensi all’altopiano del Formicoso, considerato il granaio dell’Irpinia, dove qualcuno, all’apice delle istituzioni, decise di allestirvi una megadiscarica. Si pensi ai rinomati prodotti agroalimentari come il vino Aglianico di Taurasi o la castagna di Montella, solamente per citare quelli a denominazione d’origine controllata. Enormi potenzialità, assai redditizie in termini occupazionali, sono insite pure nell’ambiente storico e naturale, nel turismo ecologico, archeologico e culturale, che non è mai stato valorizzato dalle autorità locali. Negli anni abbiamo assistito ad un processo di mutazione antropologica dell’Irpinia. Con l’avvento della globalizzazione neoliberista la società irpina ha subito un’improvvisa accelerazione storica. Da noi convivono piaghe antiche e nuove contraddizioni sociali, quali la disoccupazione, le devianze giovanili, l’emarginazione sociale, in quanto effetti causati da una modernizzazione consumistica. Anche in Irpinia l’effetto più drammatico della crisi scaturita dal fallimento di un modello di sviluppo diretto dall’alto, è stato un processo di imbarbarimento che ha alterato i rapporti (dis)umani. Rapporti sempre più improntati all’insegna di un feticismo di carattere ideologico, quello del profitto e della merce, trasmesso alle nuove generazioni come l’unico senso e scopo della vita. Il cosiddetto “sviluppo” ha provocato mostruose sperequazioni che hanno avvelenato gli animi ed i rapporti umani, approfondendo le disuguaglianze esistenti, creando nuove sacche di ingiustizia e di contraddizione materiale, generando nuove forme di miseria e di emarginazione, precarietà e sfruttamento in contesti sempre più omologati culturalmente. Rispetto a tali processi socio-materiali, le “devianze giovanili”, i suicidi e le nuove forme di dipendenza sono i sintomi più inquietanti di un diffuso malessere morale ed esistenziale. Insomma, si può affermare che a 35 anni di distanza si perpetua l’arroganza di un potere politico affaristico-clientelare che continua a ricattare i soggetti più deboli, riducendo le libertà individuali, influenzando gli orientamenti ed i flussi elettorali per creare ampi serbatoi di voti. Tali rapporti di forza sono mantenuti in modo cinico e spregiudicato. Pertanto, è necessaria un’azione politica che propugni una trasformazione radicale dell’esistente assieme agli altri soggetti realmente antagonisti e progressisti che operano nella società irpina, ad iniziare dal Collettivo Attack Irpinia, di cui faccio parte. Le nostre popolazioni sono tuttora soggiogate da una casta politica vetusta ed incancrenita che comanda con metodi anacronistici, alla maniera del celebre “Gattopardo”, convinto che tutto debba cambiare affinché nulla cambi e tutto resti come prima. Il mio contributo è un tentativo di analisi dell’odierna realtà politica ed economico-sociale dei nostri luoghi, per provare a modificarla immaginando una prospettiva di progresso. La speranza di giustizia e di riscatto delle popolazioni irpine reclama a gran voce un progetto di trasformazione radicale, ben sapendo che non conviene mai semplificare questioni tanto vaste e complesse, poiché rischierebbe di sortire esiti a dir poco controproducenti. La realtà non è mai semplice come appare, è sempre assai contraddittoria, complessa e mutevole, per cui esige un approccio critico ed un metodo investigativo capace di avvalersi di molteplici strumenti di indagine e di interpretazione dell’esistente, compresa la riflessione politica che, tuttavia, da sola non è affatto esauriente ed esaustiva, né autosufficiente”.
Lucio Garofalo