“Il paese di don Riffò” è il composito affresco che squaderna e fa rivisitare, con i timbri e le tonalità della modulazione polifonica, la vita di una comunità per nulla lambita dall’attuazione degli ideali della Costituzione repubblicana, avendo dovuto fare sempre i conti con i ”notabili” del potere locale, diventati con rapido trasformismo, una volta dissoltosi il regime fascista, puri e convinti alfieri del nuovo ordine politico, facendosi valere con le consuete giostre dei favoritismi clientelari e degli intrallazzi affaristici, combinati con la pratica dei metodi autoritari e repressivi.
È la storia, in cui l’autore, con limpida scrittura, ricapitola e ripercorre passo dopo passo le vicende vissute dalla comunità lungo il quarto di secolo iniziato nel 1945, con la Liberazione, e concluso nel ’70, anello di saldatura in continuità con la lunga e terrificante scia dei cupi e violenti anni lacerati dal terrorismo e dallo stragismo attuati dalle “brigate rosse” e dai “neri”, rincorrendosi nell’avvolgente e auto-distruttiva spirale del nulla, immolando alle loro follie ideologiche migliaia di vittime innocenti, sconvolgendo famiglie e avvelenando la realtà sociale del tempo. Sono vicende–metafora – riprendendo il filo della narrazione de “Il paese di don Riffò”- in cui si rispecchiano e ritrovano tanti altri amorfi ”mondi del Sud“, refrattari non solo a vivere e praticare lo spirito progressivo delle libertà politiche senza le quali la democrazia è vuota enunciazione di principio, ma anche e soprattutto resi socialmente poveri per effetto delle migrazioni di milioni di giovani nell’ansiosa ricerca di lavoro e di dignitose condizioni di vita civile. ”Mondi” dai quali i giovani del Terzo Millennio continuano a fuggire, per intercettare, com’è giusto che sia, le tante opportunità di crescita personale che dappertutto offre la società tecnotronica e del web … eccezion fatta per il Sud.
di Gianni Amodeo
L’originario toponimo del paese di cui l’autore narra le vicende era stato, di fatto, rimosso ed è proprio dal toponimo dell’ufficialità dismessa e smarrita, che prende ispirazione il racconto, con cui Antonio Caccavale intesse la trama del romanzo appena dato alle stampe in self publishing attraverso il Gruppo Gedi Editoriale. E va detto che il secondo romanzo di Caccavale costituisce l’interessante e preziosa conferma dell’attitudine dell’autore per la schietta affabulazione realistica calibrata sulle assonanze espressive che richiamano lo stile e l’impronta del linguaggio, con cui Giovanni Verga rappresenta -specie nelle Novelle e ne “ I Malavoglia “- gli squarci di vita acre e amara che vivono gli uomini, le donne e i carusi della Sicilia del suo tempo. E’ l’affabulazione realistica, di cui lo stesso autore ha già fornito un qualificato saggio narrativo nel romanzo “ Nel nome dell’Onnipotente uno e trino”, l’opera pubblicata nel 2016 ed ambientata tra l’Agro nolano, i Monti Avella e la Valle caudina, nell’arco di tempo che corre tra dicembre del 1859 e luglio 1860, mentre vibrano i fervori risorgimentali per l’ Unità nazionale e le regioni del Sud sono attraversate dal brigantaggio e dalla sua repressione, a far da sfondo alla storia di seduzione, violenza e morte in cui si intrecciano le vicende di Costanzo Majo, capo-brigante e la bella Matilde, moglie di notaio, donna di agiata condizione e larghe vedute, sensibile alle idee liberali.
Il paese, di cui si raccontano personaggi e vicende e il cui toponimo originario era stato cancellato dalla comune memoria locale e reso estraneo a tutto ciò che per storia e identità popolare aveva rappresentato per il Comune di riferimento, era venuto evaporando – ad iniziare dal 1945, l’anno della Liberazione, in stretta correlazione con il progressivo consolidarsi delle Istituzioni dello Stato repubblicano e democratico– per una tacita e diffusa convenzione tra la gente dell’intero territorio , per assumere soltanto e brevemente l’identikit de “Il paese di don Riffò”, rendendo sacrale omaggio di devoto riconoscimento a don Riffò appunto. Un dominus speciale, era don Riffò, che – ossimoro di sconcertante prospetto, ma concreto e reale- in tempi di democrazia rappresentativa aveva infeudato a sé, ai suoi interessi e voleri non solo gli Organi elettivi preposti all’amministrazione del Comune-paese, ma anche e soprattutto la popolazione, la comunità che da sempre vi risiedeva, composta da famiglie e generazioni spesso intrecciate tra loro da forti legami parentali, mentre le nuove residenze che aveva registrato l’ufficio dell’Anagrafe municipale nel corso degli anni più recenti si potevano contare sulle dita di una sola mano. Una paradossale e pervasiva presenza, a cui faceva da contraltare quella di don Cesarino, altro capo-fazione, che, però, non aveva la caratura di don Riffò nel catalizzare, gestire e … capitalizzare i consensi dei paesani.
L’infeudamento e il conveniente consenso dei sudditi cittadini
Era stato un infeudamento, quello che aveva realizzato don Riffò, come tanti altri della sua stessa risma avevano posto in essere – nei confusi anni che seguirono prima l’ armistizio dell’8 settembre del ’43 e poi la fine della guerra, quando il contrabbando conosceva il suo trionfo, creando i nuovi ricchi grazie alla gestione delle piattaforme di stoccaggio e vendita di beni e merci notoriamente attive in Campania, specie nell’ area nolana– facendo leva su furbizia e spregiudicatezza, rischiando talvolta scivolosi inciampi in barba alla legge. Ma da tutte le situazioni, anche quelle che sembravano le più compromettenti e compromesse per il suo “status”, n’era uscito sempre “pulito e con le carte a posto”, come si usa dire di fronte al corso delle cose per ineluttabile rassegnazione, specie con il formale avallo degli esiti delle urne sia per le periodiche elezioni comunali, a cui don Riffò concorreva in … proprio per la carica di “primo cittadino” che per quelle delle elezioni provinciali, regionali e del parlamento nazionale, a cui partecipava con propri … candidati piazzati vincenti.
Era il corso di cose, che in paese filava monocorde e tranquillo, come racconta Antonio Caccavale, vanamente contrastato da pochi coraggiosi artigiani e contadini restii a subire passivamente i metodi autoritari di don Riffò; pochi, coraggiosi e disincantati anziani, come Nicola e zi’ Peppino, la cui tagliente arguzia aveva il pregio di onorare le verità dei fatti e rivelare i misfatti paesani, in cui erano soliti guazzare nei loro permanenti contrasti don Riffò e don Cesarino. E con i loro atteggiamenti Nicola e zi’ Peppino davano buona corda al sano e disinvolto anticonformismo di cui si nutriva un gruppo di giovani idealisti che amavano declinare e propugnare i principi della Carta costituzionale, ma senza trovare mai ascolto.
In realtà, l’ infeudamento, ch’era venuto crescendo a cominciare dall’avvento democrazia nel paese, non aveva l’unica fonte e forza nel primo artefice e beneficiario … del sistema, ma s’era formato con migliaia di interessate convenienze e soffici acquiescenze, nutrito com’era da promesse e impegni che don Riffò era solito onorare, almeno in parte, con favoritismi di vario genere. Un’ascesa prepotente e inarrestabile, in cui don Riffò utilizzava, a seconda delle circostanze ed opportunità ben calcolate, le posizioni non solo di ricco commerciante di prodotti agricoli e di possidente che era solito brigare con altri possidenti e commercianti come lui, ma anche di sindaco, oltre che di faccendiere in confidenziali rapporti sia con potenti politici e funzionari di Stato che con la camorra rurale da sempre attiva sul territorio, resa, però, più invasiva e dominante negli anni successivi alla conclusione della seconda guerra mondiale. Ed era ancora altro, don Riffò, nelle assidue frequentazioni affaristiche che aveva a Napoli, procurando, per di più, ai suoi amici – politici influenti e … possidenti – allegre vacanze sessuali con ragazze appena adolescenti provenienti da povere famiglie, con l’aiuto della prezzolata mezzana di turno.
Il buon matrimonio. Dall’ Era fascista alla Democrazia. La falsa testimonianza e le donazioni di don Gennaro Palumbo
Ma, prima di assurgere sul podio del don, il personaggio al centro del romanzo, era stato il classico soggetto “senza arte né parte”. Non s’era mai dato per inteso di studiare o d’imparare un mestiere, come tanti altri coetanei laboriosi e dabbene, senza dire che di famiglia non aveva granché. Aveva, però, fame di ricchezza e potere. L’appellativo, con cui era chiamato e conosciuto gli era stato affibbiato, come zi’ Peppino aveva raccontato alla nipote Mariangela, perché nel paese era solito organizzare riffe settimanali, ponendo in palio utensili o oggetti di utilità domestica; riffe, che spesso e volentieri “pilotava” a favore di questo o quello partecipante alla lotteria strapaesana, in cambio della concordata regalia sotto–mano, realizzando così il doppio guadagno. Un ingegnoso modo per ben campare a spese d’altri. Il vero colpo di riffa piena , tuttavia, lo aveva piazzato, quando decise di sposare Michelina, di sette anni più avanti di lui in età, che rischiava di restare zitella e che gli portò in dote casa, due appezzamenti di terreno e denaro. E al matrimonio il personaggio delle riffe si presentò con l’abito di cerimonia preso in affitto … Era la decisione, quella d’impalmare Michelina, che maturò nei mesi intercorrenti tra il 1934 e il 1935, in corrispondenza con il XIII anno dell’ Era fascista; e la serie della periodizzazione littoria iniziava ogni anno il 28 di ottobre, in coincidenza con le ricorrenze memoriali della Marcia su Roma del 1922, per concludersi il 27 ottobre dell’anno successivo; e le celebrazioni dell’E. F. esaurirono la loro parabola nel XXI anno il 27 di ottobre del ’43.
Fu l’anno, quello tredicesimo del calendario mussoliniano, che per don Riffò rappresentò la svolta porta fortuna, dandogli la spinta propulsiva a scalare con risolutezza i primi gradini della condizione del potente del paese, tra affari privati di commerciante e solidi rapporti con i depositari dell’ordine politico esistente sul territorio. Una posizione fatta lievitare per dieci anni, per planare comodamente e con perfetto salto … di quaglia nel nuovo potere avanzante con l’ assetto dello Stato repubblicano che nasceva; una posizione che don Riffò in progressione di tempo ebbe modo di rinvigorire e ampliare, con ulteriori arricchimenti ed incrementi patrimoniali, grazie al prolungato esercizio del ruolo di sindaco del paese, per volontà popolare espressa in libere elezioni.
Se don Riffò è il personaggio centrale del romanzo, il pregio della trama è dato dagli inneschi narrativi, con cui Antonio Caccavale ne dilata l’orizzonte nelle partiture- sono venticinque in complesso- in chiave di incalzante affabulazione; sono gli inneschi del “patto d’onore” tra don Riffò e don Cesarino, avversari in luoghi pubblici e affaristi associati in privato, che decidono l’apertura di una strada, per rendere edificabili i terreni di loro proprietà con sostanziali incrementi di valore economico, o della testimonianza falsa che don Riffò rende per scagionare don Felice, figlio di don Gennaro Palumbo, ricco possidente terriero. Sul giovane rampollo del potente signorotto si erano addensati forti e ragionevoli indizi d’essere responsabile del rapimento con stupro e uccisione di Mariarosa, appena diciassettenne e vanamente corteggiata dal giovane signorotto; e coloro che sapevano ed avevano osservato atti e comportamenti inequivocabili sulle responsabilità di don Felice, non ne avevano voluto, però, rendere conto ai carabinieri che conducevano le indagini, né questi se n’erano dati cura di fare approfondimenti e verifiche.
E nell’omertà generale don Riffò e la sorella che risiedeva nella città partenopea e l’ospitava spesso, calarono l’asso delle testimonianze che liberavano don Felice da ogni sospetto, dichiarando che il giorno dello stupro e dell’uccisione della povera Mariarosa, il rampollo di don Gennaro era stato proprio con don Riffò a Napoli, per sbrigare affari di famiglia. Una dichiarazione, che salvava in pieno don Felice e che il padre don Gennaro Palumbo ripagò al meglio, donando a don Riffò tanto denaro e due ettari di terreno agrario. Della morte violenta subita da Mariarosa fu, invece, incolpato con il supporto delle stupide dicerie, di cui la cattiveria paesana si pasce e nutre, Ninuccio Mezzaluna, figlio di Luisella psicolabile che a quindici anni l’aveva generato, resa incinta da padre ignoto. Ninuccio Mezzaluna giovane trasognato e per nulla capace di torcere un capello a qualcuno, preso dalla … luna per effetto di tare materne, era solito, però, sorridere in faccia alle ragazze che incontrava, senza recare loro alcuna molestia. Nel cuore proprio un po’ tutti i paesani sapevano che Ninuccio Mezzaluna era innocente e che non c’entrava per nulla con l’uccisione di Mariorosa, innamorata di Santuccio e per niente attratta dal danaroso don Felice che viaggiava nella “Balilla“, tra le poche auto in circolazione sul territorio. Ma Ninuccio Mezzaluna era il capro espiatorio adatto per affermare ordine e legalità, come esigeva il “federale” del partito fascista locale che faceva pressione perché fosse consegnato un colpevole all’opinione pubblica, scossa e turbata dall’efferato assassinio. Insomma, al tarato figlio di Luisella presa dalla … luna si poteva far pagare il … conto e tacitare le false coscienze degli ipocriti paesani. Giusto per salvare le apparenze. E così fu, con la sentenza di pena capitale che condannò alla fucilazione Ninuccio Mezzaluna … con processo costruito su reticenze, false testimonianze, indagini superficiali e dicerie, per non “disturbare” più di tanto il ricco possidente tutore della buona reputazione del giovane rampollo, don Felice
Di ariosa freschezza risultano gli inneschi narrativi, con cui l’autore si sofferma sugli amori fioriti tra i giovani del paese di don Riffò. Amori e speranze che hanno lo spirito e il sapore dei sentimenti genuini e dei pensieri di sana umanità. Come dire che rappresentano il rovescio e il contrario degli epigoni e continuatori dei tanti don Riffò e don Cesarino che con i loro metodi e pratiche di potere affaristico e clientelare hanno irrimediabilmente svilito e compromesso tante realtà del Sud, e continuano a farlo, tradendo la Costituzione e la democrazia repubblicana. E le aspettative dei giovani meritevoli, la cui storia continua a consumarsi nella fuga da queste terre.
L’unica e importante novità dei nostri giorni, tuttavia, è data dall’orizzonte dell’Unione europea, nel cui ambito ci si muove con i diritti sociali e politici della cittadinanza comunitaria. Un passo in avanti. Meglio di niente.