Zeta: IL MONDO DEL RAP VA IN SCENA

Zeta: IL MONDO DEL RAP VA IN SCENA

In principio era il Verbo, poi divenne Rap.

A giudicare dalla crescita esponenziale che questo genere musicale ha registrato in poco tempo era solo questione di tempo e la trasformazione sarebbe avvenuta.

Il 28 aprile 2016, quel giorno è arrivato: il Rap è diventato materia prima per un film di formazione, chiave di un racconto adolescenziale ambientato nella desolata periferia romana con protagonisti animati dal desiderio di sfondare e avere successo con la musica.

A sugellare questo progetto è Cosimo Alemà, al suo terzo film dopo una lunga palestra fatta di videoclip musicali, a cui si unisce una lunga serie di rapper italiani, più o meno famosi e con ruoli più o meno consistenti nel film, come Salvatore Esposito, Fedez , Clementino, J-Ax e Salmo, Rocco Hunt e Noyz Narcos.

Ma la scena è tutta dedicata ad un giovane terzetto: l’emergente Diego GerminiIrene Vetere e, unico attore di professione fra i tre, Jacopo Olmo Antinori.  In sala l’eccitazione era palpabile e nascondeva molta speranza. L’idea di un film generazionale con il grido di protesta giovanile cantato attraverso il rap, ambientato alle porte di Roma, appare come un’ottima idea degna di un Pasolini odierno, che mette il rap anziché il twist nelle periferie della Capitale.Per questo motivo la delusione degli appassionati del genere è stata ancora più cocente.

LA TRAMA

Alex (Diego Germini, rapper anche nella vita) è un ragazzo della periferia romana. Diabetico, senza la madre e costretto a lavorare come pescivendolo per il padre, ha solo due gioie nella vita: il Rap ed i suoi migliori amici, Gaia (Irene Vetere) e Marco (Jacopo Olmo Antinori), con cui ha messo in piedi un duo, gli Anta, e sta disperatamente cercando di farsi conoscere.

I rapporti fra i tre sono destinati a guastarsi molto in fretta a causa di un triangolo amoroso con Gaia al vertice, ma soprattutto a causa di un accordo musicale con alcuni importanti produttori. Un aut aut a cui Alex risponde salendo sul treno in corsa e lasciando a terra l’amico Marco. Ora il suo nome è Zeta, ma la sfida è appena cominciata e la strada è ancora lunga: Alex/Zeta è entrato nella gabbia dei leoni, un mondo difficile fatto di rivalità, gelosie e rancori, dove il rapporto umano si sbriciola sotto le logiche produttive e la divinità del denaro.  Più o meno dall’inizio fino alla scena conclusiva, il film è una sequela di luoghi comuni e stereotipi, tutti così rigidamente rispettati che a tratti si potrebbe pensare ad un’autoironia. Solo che non lo è. Il film tenta di raccontare un disagio: quello di una generazione allo sbando, lasciata a se stessa, con una difficile situazione familiare e personale.

Alex è costretto ad una vita routinaria e solo la passione per la musica è l’antidoto al malessere di tutti i giorni. Ma il film risulta in definitiva vuoto, perché “svende” il tema di partenza ad una serie di banalità. Diventa un guscio vuoto.

Primo grande errore: il voice-over del protagonista Alex, con vuote frasi ad effetto, di quelle che neanche Sylvester Stallone nei film più commerciali utilizza. Non solo non c’era bisogno di quelle frasi, ma non c’era nemmeno bisogno di voice over: il film sarebbe stato molto più potente se lasciato libero di scorrere.

Le dinamiche sentimentali fra i protagonisti, così come l’ascesa e le sfide della “società dello spettacolo” sono tutte telefonate. I twist e i finali non sono una sorpresa per nessuno. Ma la gravità sta nel concetto: il rap dovrebbe essere una rabbiosa ribellione alle regole imposte, alla società, e diventa invece nel film un mezzo qualsiasi da sacrificare sull’altare del successo e del denaro. Poteva rappresentare la chiave per esprimere la ribellione di una generazione di giovani, di periferie abbandonate a se stesse, invece la pellicola sembra tendere a quella società che denuncia e condanna. Un cortocircuito di contraddizioni di cui si salvano pochi passaggi: la “battle” fra i rapper, i momenti più improvvisati fra i tre protagonisti (due scene su tutti: il palazzo vuoto vuoto e abbandonato delle speculazioni edilizie che diventa il punto di ritrovo e la scena di Alex e Gaia che ballano bevendo vino) e quell’unico punto in comune fra i due mondi in cui gravita Alex/Zeta, ossia la cocaina.

Chi scrive ne era seriamente convinta : la materia di partenza avrebbe potuto davvero rappresentare una svolta. Zeta avrebbe potuto essere la rivisitazione odierna di Mamma Roma, forse un po’ troppo ottimisticamente, o comunque ascriversi al filone di film come Quadrophenia e 8 mile. Ma il rap non diventa un grido di denuncia, piuttosto è relegato a merce di scambio, ad una svendita puramente commerciale. Le idee buone di base c’erano, l’impressione è che gli autori abbiano avuto timore di rischiare troppo: avrebbero solo dovuto essere più autentici e sinceri, raccontare qualcosa di reale, anziché cercare conferme nei cliché di un cinema visto e stravisto. Marianna Sorrentino