di Antonio Vecchione
La Madonna di Montevergine è stata sempre particolarmente amata dal popolo baianese. Il suo culto è sempre stato vivo, sia tra i ceti popolari che nell’alta borghesia. I numerosi pellegrinaggi, una sorta di viaggi della speranza, che partivano da Baiano per raggiungere, attraverso colline, valli, monti e boschi, il Santuario e onorare Mamma Schiavona, ne costituivano una schietta testimonianza. Una vera tradizione, sentita e praticata fino agli anni sessanta del secolo scorso, che affondava le sue radici nel profondo della storia della religiosità popolare della comunità baianese. Il dott. Agostino Masi, farmacista, personaggio di spicco del territorio, riferimento sociale, politico e culturale per almeno un cinquantennio del secolo scorso, era uno dei promotori di questi viaggi di “fede”. La gita era attesa e la preparazione adeguata all’autorevolezza ed al prestigio dei pellegrini; vi partecipavano i cittadini più in vista, i professionisti, i possidenti, per lo più residenti nei palazzi del corso e dei quartieri residenziali. Una carovana di cavalli, asini, muli e carretti, in atmosfera gioiosa, si avviava, partendo dalla piazza, alla volta del Partenio. Il carattere festoso della “scampagnata” era messo in evidenza dalle due capaci varrécchie di vino che erano trascinate fin lassù a dorso d’asino (dal latino “barriculum”, barilotto, un contenitore di legno costruito da speciali artigiani, i “bottari”, che poteva contenere fino a 30 litri). Erano legate strettamente alla “varda”, una specie di sella da soma costruita a mano da esperti artigiani, che consentiva di cavalcare l’asino o di assicurare il trasporto di carichi. Talvolta si utilizzava anche la “stora”, altra attrezzatura costruita in legno di vite che, posizionata sulla schiena dell’asino, offriva la possibilità di effettuare voluminosi trasporti nelle sue due capaci sacche. La devozione per la Madonna era la motivazione principale, ma i pellegrini amavano anche trascorrere allegramente la giornata, mangiando, bevendo e cantando.
Non mancava mai, tra i partecipanti, Ngiulillo ‘o carpato, devoto servitore del farmacista, che, mentre i partecipanti erano impegnati nella visita al santuario, aveva l’incarico di sorvegliare cavalli, carretti e le abbondanti scorte di cibarie e vino.
I “vesuni” in pellegrinaggio
Anche il quartiere dei Vesuni aveva la sua tradizione per la Madonna di Montevergine, ma la sagliùta del Partenio aveva un’impronta completamente diversa, popolare e folcloristica, come nel carattere dei suoi abitanti. Il pellegrinaggio era più faticoso, in quanto il Santuario si raggiungeva a piedi; due giorni la durata del viaggio, uno per l’andata e l’altro per il ritorno. L’evento era organizzato con molta cura, ogni anno, agli inizi di settembre, da Antonio Capiluongo, ‘o maruzziello. Personaggio spumeggiante, Ntonio animava tutte le attività sociali dei Vesuni, dal Carnevale, con la rappresentazione dei “mesi”, insieme ad Andrea ‘o sorice, alla festa del Maio, nel corso della quale si esibiva con spari con la “carabina” e, nel pomeriggio, come capo – popolo nella raccolta pomeridiana di sarcenielle per il focarone di S. Stefano. Si distingueva, da protagonista, in ogni attività: scampagnate, balli, tornei di calcio, festa di S. Stefano, processioni.
Per la gita a Montevergine, poneva particolare cura: si attivava almeno un mese prima, decidendo giorno e ora della partenza ed il luogo del raduno. Poi informava ciascun partecipante, raccoglieva le adesioni, convinceva gli indecisi, e, per arricchire la schiera dei partecipanti, invitava anche giovani provenienti da altri quartieri, superando la tradizionale rivalità. Un folto gruppo conferiva prestigio e valore alla gita, gratificava gli organizzatori, entusiasmava tutti i partecipanti, rendendoli orgogliosi di esserci. “La sera prima”, ci racconta Andrea Belloisi, “noi ragazzi preparavamo accuratamente lo zaino: un pullover pesante, una pila, una coperta, la borraccia dell’acqua e abbastanza cibo per un paio di giorni”. Insostituibile come aiuto nell’arrampicarsi era la “pagliocca”, un lungo e spesso bastone, corredo indispensabile di tutti quelli si avventuravano per colline e montagne. Il raduno era fissato appena dopo mezzanotte, tra le due e le tre del mattino, nei pressi della casa d’’o Marruzziello. Antonio eseguiva, da capo indiscusso e rigoroso, un accurato controllo delle presenze. L’adesione data equivaleva ad un obbligo; gli assenti o ritardatari erano svegliati, buttati giù dal letto e costretti precipitosamente ad accodarsi. Finita l’operazione controllo, Antonio si metteva alla testa del gruppo, insieme ai musicanti, diretti dai fratelli De Feo, e dava inizio al viaggio.
I ragazzini erano guidati e sorvegliati dalle donne che partecipavano al pellegrinaggio, tra le quali si distingueva per spirito d’iniziativa Nannina Sgambati ‘a zéppola. Il viaggio prevedeva due o tre soste: la prima alla Fontana del Litto, dopo aver attraversato la cupa di Sirignano, Quadrelle e San Pietro di Mugnano. Si proseguiva arrampicandosi verso la zona montagnosa del Partenio, fino alle sorgenti di Acquafidia, territorio di Monteforte Irpino; qualche altra ora di cammino, tutto in salita, e si raggiungeva ‘o Campetiello, un vasto pianoro situato tra le montagne della zona di Summonte e Ospedaletto. Dopo quest’ultima sosta, con la stanchezza che affiorava, si affrontava la salita finale per raggiungere la vetta del Partenio, da cui finalmente, a circa otto – nove ore dalla partenza, s’intravedeva il Santuario. “Felici ed entusiasti”, è sempre Andrea che parla, “ci lanciavamo per la discesa fino allo spiazzo antistante la Chiesa. Una breve sosta serviva per metterci in ordine, lavarci, pulirci le scarpe, cambiarci la maglia o la camicia. Messi a lucido, ordinatamente in fila, entravamo in Chiesa ad onorare la Madonna”.
Il pomeriggio trascorreva per mangiare, visitare il Santuario e fare un giro per le numerose e variopinte bancarelle, alla ricerca di fantasiosi ricordi, torrone e castagne. La notte si trascorreva nelle Sale del Pellegrino, una serie di stanze che i Frati Benedettini mettevano a disposizione dei devoti in visita. Un rigido e severo controllo era effettuato affinché non vi fosse promiscuità tra uomini e donne. Gli uomini occupavano le stanze disponibili, mentre le donne si dovevano arrangiare ed era loro consentito di entrare in Chiesa per dormire sul pavimento o sulle panche. Le difficoltà nascevano quando, e non era raro, le Sale del Pellegrino esaurivano i posti a disposizione. La prospettiva degli esclusi era una nottata all’addiaccio che, sul Partenio, era, ed è, difficilmente sostenibile per il freddo pungente. “E’ ancora vivo il ricordo di un’esperienza del genere, che capitò a me”, ci dice ancora Andrea, “e ad un gruppetto di ragazzi. Non essendo riusciti a trovar posto da dormire, siamo rimasti fuori, al freddo, che, col calar delle tenebre, diveniva sempre più intenso. Battendo i denti, tentammo inutilmente di entrare in Chiesa, ma ci fu vietato. Ci voleva una soluzione e fu trovata dall’inventiva di ‘Ntonio e Nannina: larghi fazzoletti sulla testa e annodati sotto il mento, una leggera coperta sulle spalle ci trasformarono in “ragazze”. Nannina, con molta faccia tosta, ci guidò alla porta della Chiesa e, con fare sicuro, convinse il custode, perplesso, a farci entrare, dando assicurazioni sul nostro essere femminucce”.
L’indomani, verso le nove del mattino, dopo avere ascoltato la S. Messa, si riprendeva la strada del ritorno, cadenzato in modo diverso. Una sola sosta era prevista, lunga, allegra e festante, e si faceva al Campetiello. Il pianoro, ampio, verde per i prati estesi, invitava a frenetiche attività: corse, salti, giochi. Poi dopo aver mangiato con abbondanza, si cantava a squarciagola, aiutati dall’ebbrezza delle colossali bevute di un vinello leggero, preparato per l’occasione da Aniello ‘o maruzziello, in anticipo sulla stagione, coi grappoli più maturi degli estesi vigneti di uva fragola di Agliarola. Alle quattro del pomeriggio, stremati e soddisfatti, si riprendeva il cammino per arrivare a Baiano in serata.
Il ringraziamento per il miracolo di Giovannino Sgambati
Mastro Ciccio Sgambati, ‘e zeppole, eccellente artigiano, carattere allegro e aperto, oltre che portare avanti con successo la sua attività di falegname, era conosciuto per la sua attività a favore del Santuario di Montevergine. Suo figlio Giovannino, causa un incidente, rimase paralizzato a letto per lunghi anni nel fiore della sua giovinezza. La sua guarigione fu miracolosa: seduto su una sedia, intento ad ascoltar Messa nella cappella della Madonna di Montevergine, sentì un richiamo celeste che lo fece alzare e camminare fino all’altare per la comunione. Un vero miracolo, ufficialmente riconosciuto dalla Chiesa, che emozionò particolarmente il padre, mastro Ciccio. Con l’umiltà del suo modo d’essere e motivato dal sacro senso del dovere di Cristiano e di cittadino, sentì per tutta la sua vita il peso morale di ringraziare e onorare la Madonna per la grazia ricevuta. Commosso e riconoscente, organizzava un pellegrinaggio ogni anno, il primo settembre, coinvolgendo non soltanto parenti e amici, ma la comunità intera, che rispondeva con entusiasmo. Una enorme folla devota e appassionata accoglieva l’invito di mastro Ciccio, il quale, per soddisfare tutte le richieste di partecipazione, noleggiava un elevato numero di bus: un anno arrivò a dieci. La banda che accompagnava i fedeli nel pellegrinaggio viaggiava a parte su camion. Il buon Ciccio si dimostrò un instancabile e intelligente promotore girando nei vari paesi dell’agro nolano. Raccoglieva fondi per il Santuario distribuendo un artistico calendario corredato dell’immagine sacra della Madonna “Bruna”. Questo viaggio di gratitudine si trasformò, grazie a lui, in una tradizione tutta baianese. Per molti anni l’arrivo del popolo baianese accompagnato dalla banda musicale costituì un evento atteso e apprezzato sul monte Partenio, sia per la sincera devozione che animava i pellegrini ma anche per il clima di festa che creavano con il loro entusiasmo.
Il dopoguerra e la “Grazia” per il ritorno dei soldati
Altre testimonianze della devozione dei baianesi per Mamma Schiavona si ebbero nell’immediato dopoguerra. Ce lo ricorda Nannina Sgambati, “’a zeppola”, che vive ancora nel quartiere dei vesuni. Incontrarla è un piacere. La sua accoglienza è speciale, illuminata da un gentile sorriso, testimonianza storica del modo d’essere del popolo dei vesuni, un popolo animato da uno spirito semplice, schietto, solidale e benevolo. Bellissime e intrise di affettuosa e serena nostalgia le sue parole: “Mi ricordo di tutti gli abitanti dei Vesuni”, mi dice, “ e del clima fraterno che caratterizzava la nostra vita sociale. Provo un affetto infinito per coloro che ci abitano ancora ma soprattutto per quelli che non ci sono più. Non faccio mai mancare un pensiero e una preghiera ogni giorno per tutti”. Poi dal profondo del suo cuore emerge la memoria di quel pellegrinaggio del dopoguerra di sole donne, madri, mogli e sorelle di soldati in guerra che non avevano più dato notizie, dispersi o trattenuti nelle prigioni inglesi fino a tutto il 1946.
Fu un ingiusto abuso di potere questa prolungata reclusione, una vile speculazione sulla pelle dei nostri soldati da parte del governo Inglese, che impegnò la gran parte dei prigionieri italiani in lavori che produssero benefici allo Stato (Il “Manchester Guardian” nel settembre 1945 calcolò il guadagno per il Tesoro derivante da questo sistema tra gli 8 e i 9 milioni di sterline al mese). La comunità baianese contava molti di questi prigionieri e quasi ogni famiglia viveva il dramma di un figlio lontano da anni. “Solo un miracolo può ridarci i nostri figli”, era il pensiero dominante nel quartiere. Con il candore delle persone umili e animati da una incrollabile Fede, decidono di recarsi in pellegrinaggio al Santuario di Montevergine per chiedere la Grazia del ritorno dei propri cari. “Soltanto Mamma Schiavona può capire il nostro dolore e operare il miracolo. Affidiamoci a Lei”. Con questi sentimenti si riunì un folto gruppo di chiedenti Grazia. Oltre a Nannina, c’era la mamma Andreana (Ndrianella) che pregava per il ritorno dei suoi due figli Nanuccio e Mimì, Carolina a pullera, per il marito Michele, Carmela a Luparella, Angelina (Ngiulina) a Riturnese e molte altre. Partite a notte fonda, la schiera arriva al Santuario alle prime ore del mattino. Il tempo di rifiatare ed eccole in ginocchio per salire la Scala Santa ed entrare nella Cappella della Madonna; poi accensione di una candela votiva, un’offerta, la Santa Messa e, soprattutto, la preghiera per implorare la Grazia. Un rito testimonianza di una sincera devozione e della speranza che sempre sostiene chi ha Fede. Dopo un rapido giro per la piazza del Santuario, un veloce consumo del pasto, qualche compera, e il gruppo si incammina per la strada del ritorno. “Un ritorno che divenne sofferto”, ci ricorda Nannina. Ndrianella e Carolina, le due persone più anziane, rallentavano la marcia e, insieme a poche altre, non si resero conto di essersi smarrite. Spaventate e scoraggiate temerono il peggio. Poi si ripresero alla vista di una donna che si tratteneva poco distante tra gli alberi. A gran voce richiamarono la sua attenzione e le chiesero subito di accompagnarle nell’intricato viaggio di ritorno. Purtroppo la donna, rammaricata, si rifiutò: “Non mi è possibile”, rispose. “Sono impegnata a trovare funghi per venderli. Devo dar da vivere alla mia famiglia”. Per fortuna, con lo spirito pratico che le derivava dalla sua attività commerciale, Carolina a pullera risolse subito il problema: “se ci fai da guida per raggiungere Baiano, siamo disponibili ad anticiparti l’eventuale incasso della vendita dei funghi”. Una proposta ragionevole, subito accettata. L’arrivo a Baiano, quasi a sera, fu salutato come una liberazione. Il quartiere intero era preoccupato e trepidante per la sorte del gruppo.
Don Isidoro Valentino, un figlio di Baiano Padre benedettino a Montevergine.
La devozione della comunità baianese per la Madonna di Montevergine è testimoniata non solo dai pellegrinaggi, ma anche dalla presenza di un nostro concittadino che trascorse la sua vita al servizio della Madonna: parlo di Don Isidoro, nato Stefano Valentino, autorevole rappresentante della famiglia Vecchione, figlio di mia zia Filomena e di Fedele. Stefano, nato nel 1938, sentì subito il richiamo celeste della vocazione e, in particolare, percepì la “chiamata di Mamma Schiavona” . Appena dopo la licenza elementare, scelse coraggiosamente di vivere la vita monastica all’interno dell’Abbazia di Montevergine. Nel 1964 concluse il suo percorso di formazione cristiana, spirituale e teologica e fu ordinato sacerdote. Per decenni è stato impegnato come attivo e preparato protagonista delle attività religiose del Santuario. Apprezzatissime le sue prediche dall’altare dell’Abbazia. Poi ha rivestito vari incarichi, nei quali ha sempre manifestato la ricchezza della sua vita interiore, sia come educatore di ragazzi che come presidente della Caritas di Mercogliano. Prestò la sua opera anche presso la diocesi di Benevento, meritando la nomina a Monsignore, e in seguito come Abate della cattedrale S. Giovanni del Vaglio a Montefusco. Colpito da una terribile morbo, nel 2004 ritornò da Mamma Schiavona. Ora riposa nella Chiesa nuova del convento di Montevergine.