Il 26 febbraio scorso, a mezza mattinata, una piazza abbastanza animata ha richiamato la mia attenzione. Uno scenario inconsueto, perlomeno degli ultimi anni, caratterizzati da scarsa frequenza e da un inusitato senso di solitudine. Probabilmente la bella giornata e la celebrazione della festa votiva per Santo Stefano hanno contribuito a questa insolita affluenza. Ho colto l’occasione per scattare due foto all’eroico gruppo di persone, tutti della terza età, che serenamente si godevano all’aperto il tiepido sole invernale. Un segnale confortante, ma temo costituisca un evento eccezionale. Da un decennio circa il valore della “piazza”, storicamente centro vivo delle attività sociali, politiche, commerciali e, spesso, anche religiose di una comunità, è completamente svilito. Non è più considerato il luogo di incontro e socializzazione, nel quale si può ritrovare l’identità del paese. Ormai è scarsamente attrattiva, molte volte deserta, e altri sono gli spazi frequentati dove si riunisce soprattutto la generazione ZETA, i giovanissimi, ma anche i quarantenni MILLENIALS e perfino i BOOMERS, ovvero la cosiddetta terza età, per sentirsi ancora inseriti nella modernità. Per gli incontri, nell’attuale temperie, sono preferiti locali attrezzati e di pregio, in genere fuori porta, dove schiere affollate di persone consumano i “riti” di moda alla ricerca di una sorta di attestato di “omologazione” a cui nessuno si sente di rinunciare: parliamo dell’Happy Hour, di aperitivi o apericena, di spuntini a base di taglieri con formaggio e salami, il tutto innaffiato da Pro Secco o altri coktails o vini famosi. Baiano non fa eccezione e ne sono amaramente consapevoli soprattutto i cittadini che, come me, hanno vissuto gli anni dal dopoguerra alla fine del secolo scorso, quando la piazza era lo snodo fondamentale delle attività sociali del paese.
Frequentarla significava inserirsi a pieno titolo nella vita della comunità, poter incontrare tutti, integrarsi, scambiare informazioni, aggiornarsi sulle novità, trovare anche la persona giusta per costituire una famiglia e magari diffondere l’ultimo pettegolezzo. Si affacciavano sulla piazza le sezioni dei partiti politici più rappresentativi, la Dc e il PCI, il Circolo Sociale, una istituzione del 1890 con centinaia di soci, la posta e la banca.
I marciapiedi davanti al palazzo comunale e le panchine della piazza costituivano una specie di tribuna dove schiere di cittadini si trattenevano a lungo comodamente seduti. Un osservatorio privilegiato della vita pulsante che si snodava lungo i luoghi fondamentali di Baiano, la piazza, il corso, l’asse viario di via Marconi, collegamento con la Stazione terminale di Baiano della Circumvesuviana, allora fondamentale mezzo di viaggio, per lavoro e per studio. Come quinta sul lato nord spiccava il bellissimo edificio ottocentesco della Scuola Elementare, troppo frettolosamente abbattuto in seguito al sisma del 1980. In questi scenari pubblici all’aperto, ciascuno interpretava la sua parte in commedia, piccola o grande, ma sempre importante per la legittimazione che ne derivava. I costumi di vita erano semplici e prevedevano lunghissime passeggiate domenicali e festive, avanti e indietro per il corso Garibaldi fino al mercato. Saluti, cordialità, abbracci e baci, sorrisi scambiati con la numerosa schiera di parenti, amici e conoscenti ritrovati sul percorso. Era il paese intero che si ritrovava e riscopriva le ragioni dell’essere una “comunità”, un modello di organizzazione sociale in vigore fino agli anni sessanta fondato sui rapporti personali, di parentela, d’amicizia o di vicinato. Una volta era un assioma: in paese tutti sapevano tutto di tutti. Il progetto di vita di ciascuno era già segnato, dalla nascita, in forza della sua appartenenza familiare. La conoscenza reciproca degli abitanti, la condivisione da parte di ciascuno di tutte le problematiche esistenziali comuni, la concorde decisione di affrontare insieme le difficoltà, anche in considerazione dell’assenza dello Stato e della sua funzione protettrice, induceva la Comunità a farsi carico di funzioni civilissime e fondamentali quali la solidarietà, l’assistenza, il controllo dell’ordine e della moralità pubblici. Ciascuno sentiva fortemente il senso di appartenenza e, con tale consapevolezza, contribuiva a rafforzare le strutture comunitarie, rendendole solide e stabili. Questa organizzazione sociale così salda, che aveva per lunghissimo tempo scandito il ritmo di vita dei nostri padri, non è stata in grado di arginare l’inarrestabile processo di “modernizzazione” e le sue strutture furono smantellate e spazzate via. Certamente con la crescita economica e culturale i livelli di vita della comunità sono nettamente migliorati e anche la nostra generazione dovrebbe esserne soddisfatta. Pur tuttavia lo spettacolo della piazza deserta, priva di quella animazione che abbiamo conosciuto e vissuto, ci provoca un sentimento, più che di nostalgia, di dolce malinconia, nel ricordo di momenti felici vissuti in comunità. Un sentimento che ci affratella, rafforza i legami che ci uniscono a chi condivide queste memorie e ci fa riscoprire le nostre comuni radici. Dobbiamo arrenderci a questa evoluzione dei costumi di vita? Io temo di sì, ma ho anche l’obbligo di sperare in un miracolo, che non è quello di ritornare indietro nel tempo, operazione impossibile e, tutto sommato, non auspicabile, ma almeno di recuperare i valori fondamentali di solidarietà, umanità e rispetto, ovvero quei valori che impedivano l’emarginazione e riconoscevano a ciascuno di noi un suo legittimo ruolo, piccolo o grande, all’interno della comunità. Buona vita a tutti..