di Antonio Vecchione
26 dicembre, Chiesa di S. Stefano, ore 9.00, solenne concelebrazione della Santa Messa per onorare il nostro Santo Protettore, il Protomartire Stefano, che la Chiesa ricorda in questo giorno. Lo scenario, dopo l’animazione della festa del Maio, è più sereno, pacato e i fedeli si predispongono con animo disteso a partecipare alla Messa, una volta cantata, oggi arricchita dalle suggestive melodie della banda dell’Associazione “Amici del Maio”. Una cerimonia Solenne, che non ha più l’imponenza, la maestosità e la partecipazione di massa di una volta, quando una folla di devoti occupava ogni posto delle tre navate della Chiesa, da seduti e in piedi, ma che conserva una sua particolare sacralità. Il gruppo di Fedeli che, alla fine della Messa, si attiva per preparare la statua del Santo per la Processione, non è più folto come in passato, ma con lo stesso amore si dedica ad azzimare la statua del Santo come per uno sposo che si prepara alla cerimonia di nozze. Sono persone che tradizionalmente si impegnano con passione per queste operazioni e sentono di rappresentare i sentimenti di attaccamento di tutta la comunità. Viviamo un’altra epoca e i costumi di vita sono profondamente cambiati, ma per fortuna, i “comitati festa” che si susseguono da almeno 30 anni sono sempre eroicamente impegnati a tener vive le nostre tradizioni legate a S. Stefano. Ma la storia non va rimossa e conoscerla ha una preziosa funzione, quella di evidenziare che, pur nella diversità culturale e di modalità di impegno, gli obiettivi sono sempre gli stessi: mantenere identità, radici e coscienza della propria Fede. E’ sempre vivo nella memoria del popolo baianese Francesco Sgambati, ‘o professore Cicione, o Cicione ‘e Ndrianella, come era chiamato nel suo quartiere dei vesuni dal nome della madre Andreana. Egli ha soprattutto il merito di aver rappresentato per vari decenni la devozione popolare per S. Stefano e costituiva il cardine attorno al quale ruotava e si dispiegava tutta l’attività di quello che oggi si chiama “Comitato Festa” e che allora non era altro che un insieme di persone dalla forte religiosità che, semplicemente, si occupavano di tutto quanto necessario all’organizzazione delle varie celebrazioni per S. Stefano. Parliamo di un gruppo di uomini semplici, credenti ed osservanti che sacrificavano il poco tempo libero di cui disponevano per amore del Protettore. Per comprendere meglio la funzione di queste persone occorre liberarsi dell’idea “moderna” di comitato festa con relativo presidente e direttivo, di manifestazioni complesse e difficili da organizzare, di affannose ricerche di fondi, di difficoltà burocratiche da osservare.
Occorre pensare, invece, ad uomini di fede che si affidavano al Santo per il presente ed il futuro, il cui impegno era vissuto come un voto.
Questo “comitato” sui generis si formava spontaneamente ogni anno e si coagulava attorno al “Professore Cicione”. Ricordiamo, tra gli altri, Gerardo Albertini, Masino Napolitano, Livio Volpe, Generoso Giacobbe, Carmine Arbucci, Stefano Litto, “don” Nicola Cucurachi, Felice Cocozza, Aniello Capiluongo, “o maruzziello”, Mario Sorice, Paolo Tomeo, Domenico Sgambati, Carminuccio Napolitano, Umberto Esposito.
Nell’attivismo di costoro e del loro “coordinatore” si riconosceva l’intera comunità baianese, che attendeva, si potrebbe dire, con ansia affettuosa le loro visite “porta a porta” nei periodi “canonici”: a dicembre per l’offerta per l’asta di S. Stefano del pomeriggio del giorno 26 ed a luglio per il donativo, spesso in natura, quasi sempre nocciole, per la festa del 3 di agosto.
A proposito di quest’ultima riteniamo di dover sottolineare lo specialissimo significato che aveva per la quasi totalità dei baianesi: essa costituiva pressoché l’unica occasione di reale svago durante l’intero anno solare. L’atmosfera che vi si creava attorno era straordinaria, come di un evento raro e prezioso: i contadini rientravano (magari anche per un solo giorno) dai fondi, al piano o in collina, dove s’erano trasferiti sin dalla primavera; così come rientravano (con dei piani un tantino più ampi) gli emigranti. Nel quartiere dei “Vesuni” il profumo del “ragù” (‘o rraù ) e delle melanzane fritte per la “parmigiana” (nella versione contadina) si diffondeva per i vicoli e sembrava annunciare l’aria della festa, aprendo i cuori alla gioia. Il suono della banda, che girava per il paese diffondendo marce di grande presa sul pubblico, commuoveva ed entusiasmava anticipando il godimento lirico-sinfonico serale quando vi sarebbe stata l’esibizione della stessa in piazza sul tavolato di un palco (non ancora nobilitato dalla sovrastruttura “a cassa armonica”) illuminato alla meglio ed approssimativamente addobbato.
Il “clou” era la sera: si passeggiava sotto gli archi recanti una miriade di lampadine multicolori con sfoggio di abiti nuovi per le donne (cuciti dalle numerose sartine, professionali e domestiche, esistenti in paese con stoffe comprate al mercato settimanale) e del “vestito della festa” (in genere quello nero, quasi sempre unico, del matrimonio) con gli “scarpini” (scarpe basse) tirati a lucido con cromatina “Brill”, per gli uomini. Si percepiva un’atmosfera, pur pacatamente, frizzante che favoriva il riabbracciarsi, gl’incontri in genere, i saluti, i corteggiamenti e, santo cielo, anche qualche romantica scappatella amorosa.
Questo comitato è andato avanti fino all’inizio degli anni ’80, sempre con la stessa passione e l’identico impegno. I benemeriti protagonisti di quest’epoca, presi nella loro ingenua operosità, non furono in grado di percepire che qualcosa stava cambiando, che la vita ed i costumi della (gente si trasformavano, che quel radicamento diventava meno forte, che la sacralità della festa scemava ed un processo di consunzione si avvertiva sempre più nettamente.
Un segnale forte si ebbe nel 1981. Le due scosse di terremoto del novembre 1980 e soprattutto del febbraio 1981 avevano messo in ginocchio la cittadinanza. Non c’era, e non poteva essere diversamente, né volontà né entusiasmo: le celebrazioni per S. Stefano costituivano l’ultimo dei pensieri, essendo le attenzioni e le energie tutte tese a risolvere le emergenze che erano tante e non procrastinabili. In quel periodo buio e doloroso, importanza fondamentale ebbe l’Amministrazione Comunale, riferimento costante di tutta l’attività post-sismica.
Ebbene, il Sindaco dell’epoca, l’on. Stefano Vetrano, a capo di una Giunta espressione di una coalizione di Comunisti e Socialisti colse l’occasione per affidare alla Pro Loco Baiano, da poco da lui stesso fondata, l’intera organizzazione della festa di S. Stefano, con lo scopo, neppure troppo celato, di ridimensionare la figura del “Professore Cicione Sgambati”, avversario politico, onde sottrargli quel potere d’influenza che riteneva esercitasse tramite essa.
Quell’anno non ci fu la solita sottoscrizione, segno popolare di partecipazione. L’Amministrazione Comunale sostenne interamente il costo della festa (11,5 milioni, circa, di lire) ma non poté evitare che qualcosa andasse persa: la festa era stata sempre “una”, percepita come inscindibile, con le due anime, la laica e la religiosa, perfettamente fuse nel cuore dei baianesi, fusione realizzata nella coscienza di Cicione e soci.
Ci fu, invece, la festa religiosa e collateralmente, coi suoi ritmi organizzativi, quella civile: era il “new look” , la “carica della modernità”.
Negli anni successivi si è assistito ad una, per così dire, restaurazione, essendo naufragato il progetto di gestione della Pro Loco; ma non si poteva fare altro che rallentare il nuovo che prepotentemente veniva fuori, spostando di pochi anni la fine dell’epoca.
L’eredità del Professore Cicione, dopo al sua scomparsa, fu raccolta da Stefano Litto (il cui padre Anselmo [“Nzermino”] portò per la prima volta il cinematografo muto a Baiano ed il cui zio comm. Stefano, fratello del padre, fu un industriale che per primo portò alla Fiera Campionaria di Milano le castagne dei nostri boschi e dell’Irpinia), animato dalla stessa fede e passione. Egli raccolse il testimone e coordinò la festa per qualche anno, fino al 1988. Lottò intensamente per difendere “l’idea” della festa, patrimonio storico della comunità: prima di tutto il suo valore religioso, poi i festeggiamenti, schietti e semplici, pagati con i contributi offerti con molta spontaneità, senza eccessive pressioni.
Si spendeva e si festeggiava secondo la volontà (e la tasca) del popolo.
Il 1987 fu l’anno della mutazione. Ma è un’altra storia tutta da raccontare.