di Sebastiano Gaglione
Più passano gli anni e più una domanda sorge spontanea: quante volte sentiamo parlare di smart working, hub vaccinale, device, make-up, bike sharing, tablet e così via? Beh, per chi non lo sapesse, questi termini vengono definiti “anglicismi”.
Gli anglicismi (o “anglismi”) sono una categoria di forestierismi, ovvero parole straniere impiegate in italiano. Nel corso degli anni, spesso abbiamo adattato parole derivanti dalla lingua inglese alla nostra lingua (jungle-giungla; sheriff-sceriffo; drone-drone; elf-elfo ecc.)
Tuttavia, complice lo sviluppo societario ed il conseguente innalzamento del livello culturale globale, la pratica di adottare le parole inglesi alla nostra lingua, è stata sostituita sempre più dalle parole inglesi stesse, che hanno occupato un posto di rilievo nel nostro vocabolario.
Perché tutto questo? Partiamo dal presupposto, che le parole inglesi vengono percepite come più moderne prestigiose, talvolta alla moda, ma soprattutto al passo coi tempi. Questo lo sa bene anche il mondo del marketing: un esempio calzante può esser rappresentato, indubbiamente, dall’impresa ferroviaria Italo, che ha sostituito il vecchio controllore o capotreno confla figura del cosiddetto “manager”.
A dirla tutta, a voler pensar male potrebbe esserci, a volte, anche un’intenzione malevola di camuffare la realtà nascondendola dietro un termine “esotico”.
In tal senso, la politica lo fa comunemente parlando, per esempio, di “Jobs act”, di “Spending review” o di “Flat tax”. Dietro questa scelta, difatti, persiste una ragione ben precisa: l’inglese aiuta ad occultare il significato reale delle cose e quindi questo potrebbe essere, tutti gli effetti, un effetto desiderato; ma va anche detto che, in genere, gli anglicismi sono più concisi delle parole italiane (per esempio, il termine “dress code” è più breve del corrispettivo italiano “codice di abbigliamento”).
Preferire parole brevi potrebbe rispondere alla logica del principio di economia linguistica di parlare con il minimo sforzo.
Ovviamente, è da tener conto che l’inglese non è sempre più sintetico dell’italiano (per esempio, il termine “equivoco” è più breve del rispetto inglese “misunderstanding”), ma la realtà dei fatti è che, tendenzialmente le parole inglesi sono più corte delle parole italiane.
È un dato di fatto che gli italiani siano abbastanza pigri e anche un po’ provinciali nell’uso della lingua inglese, rispetto alle altre nazioni.
Quest’ultima affermazione, trova i suoi riscontri nella situazione pandemica che stiamo vivendo.
“Lockdown”, “Hub vaccinale”, “Care giver”, “No vax”: sono solo alcune, tra le tante parole, che abbiamo passivamente accolto senza nemmeno chiederci se potevano, effettivamente, essere tradotte nella nostra lingua.
La colpa di ciò va imputata in primo luogo a chi, più di altri, influenza, modella e crea la lingua, ovvero il mondo dell’informazione e della politica, che sono i primi ad adottare passivamente termini in inglese e a diffonderli, tramite i propri mezzi comunicativi, al cittadino comune, il quale, dal canto suo, si limita semplicemente a ripetere ciò che sente. Questo atteggiamento è dovuto, almeno in parte, anche all’assenza di un organo regolatore.
Ebbene, l’Accademia della Crusca si limita soprattutto a studiare la lingua nella sua struttura grammaticale e seppur sia dotata di personalità giuridica, ha meno potere normativo e meno influenza sull’informazione sulla politica, rispetto alla sua controparte spagnola.
Inoltre, in Italia tante persone non parlano bene l’inglese, soprattutto gli anziani. Dunque, usare gli anglicismi, significa confondere delle persone che hanno tutto il diritto di questo mondo di non conoscere l’inglese, ma di comprendere, in egual modo, le dinamiche del mondo circostante.
È assolutamente immorale che tutti debbano essere letteralmente obbligati a conoscerlo per capire le notizie o addirittura le leggi e le comunicazioni pubbliche.
Gli anglicismi escludono tante persone dalla piena comprensione della realtà. Siamo italiani? Allora perchè non parlare la nostra lingua? La lingua italiana viene apprezzata in tutto il mondo, proprio per il suo suono e benché la nozione di bello non sia scientifica, perché non cercare di preservare, per quanto possibile, la sua natura fonetica tanto apprezzata anche all’estero?
Non dimentichiamoci della morfologia degli anglicismi.
Essi, infatti, finiscono spesso per consonante e di solito non si declinano al plurale (per esempio, non diciamo “smartphones”, ma “smartphone”) e quindi, anche da questo punto di vista, gli anglismi rimangono dei corpi estranei, non ben integrati nella nostra lingua.
C’è poi la questione ortografica: l’italiano, è risaputo, si pronuncia tendenzialmente come si scrive: aggiungere centinaia di termini in inglese, significa inserire in italiano le stesse regolarità dell’inglese che tanto ci danno fastidio quando dobbiamo impararlo perché rischiamo di rendere obsolete tante parole italiane.
Se si continua su questa strada, con gli anglicismi che stanno sostituendo sempre più parole, tra cinquant’anni il lessico dell’italiano sarà fortemente anglicizzato, ancor più di oggi.
Potremmo pensare che ciò sia frutto di un processo di naturale evoluzione e che quindi, come tutte le cose, sia normale che anche le lingue cambino, ma la verità è che siamo anche noi a plasmare questo cambiamento con il nostro modo di parlare.
L’accezione comune più sbagliata risiede nel fatto che l’italiano sa di vecchio e tradizionale e l’inglese sa di nuovo e moderno.
Una volta che gli anglicismi si sono diffusi, è difficilissimo se non impossibile sostituirli (ad esempio, oggi non si potrebbe seriamente parlare di “tavoletta” e non di “tablet”, ma chissà, le cose sarebbero andate diversamente se fin da subito l’avessimo fatto).
Il fenomeno degli anglicismi ci sta sfuggendo di mano e sta snaturando l’identità dell’italiano.
Nel complesso, non è questione di difendere una presunta purezza della lingua italiana, ma è una questione di cercare di preservare un po’ la sua identità ortografica e anche la vitalità della lingua, basti guardare agli svizzeri, che si sforzano di preservare il plurilinguismo del paese.
Salvaguardare la nostra lingua, significa salvaguardare la nostra identità nazionale, essendone parte integrante.