di Sebastiano Gaglione
Sin dalle sue origini, l’uomo ha sempre dimostrato una particolare attrazione nell’aspirazione a realizzare un desiderio inappagabile, il tesoro primario della vita, nonché la vera e propria chiave d’interpretazione della sua misera condizione esistenziale: la felicità.
I grandi intellettuali di ogni epoca si sono confrontati e hanno scritto molto riguardo al tema della felicità e su come conseguirla, proponendo, talvolta, angolazioni culturali differenti.
Il filosofo Seneca nel “De Vita Beata” afferma che la felicità non consiste nel piacere, ma nelle virtù; essa, dunque, può essere definita come una sorta di abito che si adatta perfettamente all’indole e alle aspettative di ciascun individuo.
Tuttavia, se per il filosofo latino la felicità è un qualcosa di conseguibile per tutti, il poeta ottocentesco, Giacomo Leopardi, è di tutt’altra opinione.
Il Leopardi, infatti, nel “Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere”, attraverso il colloquio tra i due personaggi che danno il titolo all’operetta morale, mette in risalto una tematica particolare: il contrasto tra il razionalismo del passeggere e l’ottimismo fiducioso e, allo stesso tempo, un po’ ottuso del venditore. Per il poeta di Recanati la felicità non esiste, o meglio esiste, ma risiede solo negli stolti, come lo stesso venditore, il quale è felice in relazione alla sua visione positiva, ottimistica e talvolta ingenua della vita (in contrapposizione con quella pessimistica e realistica del passeggere) strettamente interconnessa alle sue basse aspettative di vita;
a renderlo felice, infatti, è la stessa vendita dei suoi almanacchi o le stesse aspettative che depone nell’anno che verrà.
Inoltre, un altro tema che è alla base del pensiero leopardiano è la teoria del piacere: la felicità, infatti, consiste nella ricerca del piacere sensibile e sostiene che tale ricerca sia la reale spinta dell’agire umano; non esiste piacere che non consiste nell’attesa del piacere stesso.
Un’altra accezione di felicità che non si fonda sulle aspettative di un futuro migliore, ma sul presente, la si trova nel poeta Orazio, il quale nel Carme 1.11 afferma che non bisogna consultare oracoli o attendersi chissà cosa in un futuro che si spera migliore, ma cogliere l’attimo presente, perchè nel domani non c’è certezza. Il carpe diem è stato travisato nel corso del tempo: oggi nessuno lo ricollega più ad una concezione di “aurea mediocritas”, espressione quanto mai cara al poeta augusteo. Infatti, se da un lato è assai importante cogliere l’attimo e godere del tempo presente nella consapevolezza dello scorrere inesorabile del tempo, il segreto per vivere una vita tutto sommato felice, ergo appagante è proprio vivere nel “giusto mezzo”, con la cosiddetta moderazione. Solo con la moderazione, ovvero con il perfetto equilibro in ogni atteggiamento è possibile evitare gli sconvolgimenti dell’animo dinnanzi alle avversità della vita.
Questi tre pensieri, seppur diversi tra loro, sono contraddistinti da un unico filo conduttore: la felicità non dipende dal contingente, ma dal modo in cui l’individuo è capace di percepirlo e di affrontarlo; un “modus agendi” acquisitivo con quello che lo stesso Seneca avrebbe ricollegato alla pratica della virtù.
In teoria dovrebbe essere così, ma nella pratica, nella nostra quotidianità, quante volte lasciamo che il nostro stato d’animo venga influenzato, in maniera positiva o negativa, da terzi?
La felicità nasce da dentro, da noi stessi. Che poi essa sia condivisibile è un altro conto, ma non dovrebbe essere influenzabile.
La felicità non è una condizione perenne e non è una meta, né tantomeno un traguardo da tagliare. E forse è meglio così, perchè se lo fosse, allora staremmo parlando della normalità, della banale, monotona e noiosa normalità.
Per questo più che parlare di felicità sarebbe più propriamente corretto parlare di “attimi di felicità”.
Gli stessi attimi che si possono cogliere solo se si ha un giusto atteggiamento verso la realtà della vita; gli stessi attimi che permettono all’anima di respirare alleviando le sofferenze derivanti dalla fragilità dell’animo umano.
Perché la felicità è questo. Per alcuni è più facile essere felici, per altri meno. Si sceglie di essere felici, apprezzando le piccole cose. C’è però chi non ci riesce. C’è chi non si sente mai appagato e soddisfatto, chi è alla continua ricerca di una perfezione che non esiste e chi lotta ogni giorno, anche contro i propri demoni interiori, per essere felice.
Una volta, il grande Totò, in un’intervista di Oriana Fallaci, affermò: “Forse vi sono momentini minuscoli di felicità e sono quelli durante i quali ci dimentichiamo le cose brutte. Quel che è certo, signorina mia, è che la felicità è fatta di attimi di dimenticanza”.
In conclusione, per essere felici sin da subito, bisogna cogliere questi stessi attimi, dimenticarsi di tutto ciò che ci circonda ed essere felici, indipendentemente da tutto il resto. D’altronde se non è questa la vera chiave della felicità, quale potrebbe essere mai?