Oggi questo nome potrebbe risultare sconosciuto a molti. Ogni tanto qualche personaggio politico odierno lo invoca, quasi sempre a sproposito. Eppure, senza mezzi termini, nella galleria degli uomini più importanti per l’Italia moderna questa figura occupa uno dei primi posti. Dopo Cavour e Garibaldi, arriva certamente De Gasperi. Se i primi due hanno fatto l’Italia, il terzo l’ha ricostruita. Nessuno che sia intellettualmente onesto può negare tale incontrovertibile dato di fatto. Se l’Italia dopo la seconda guerra mondiale è stata in grado di rinascere dalle proprie rovine e di non cadere nelle fauci dell’Unione Sovietica di Stalin, è merito quasi interamente suo.
Alcide De Gasperi nacque il 3 aprile 1881 a Pieve Tesino, in provincia di Trento. A quell’epoca il Trentino e l’Alto Adige appartenevano all’impero austro-ungarico di Francesco Giuseppe. Il padre Amedeo era un semplice impiegato della gendarmeria; riuscì tuttavia a mandare il giovane Alcide al ginnasio vescovile di Trento, dove egli conseguì la maturità classica, poi all’università di Vienna. Barcamenandosi tra profonde ristrettezze economiche, Alcide riuscì a laurearsi in filosofia nel 1905. Ma nel frattempo era maturata in lui la fiamma della politica attiva. I cardini, i valori fondamentali che avrebbe seguito per tutta la propria vita erano già solidi: la fede religiosa e l’indipendenza dell’Italia.
Il 10 dicembre 1945 Alcide De Gasperi venne nominato presidente del Consiglio. Era ancora un governo di unità nazionale, rappresentato da tutti i partiti; Togliatti era ministro della Giustizia. C’era da ricostruire letteralmente il Paese, oltre alla democrazia. Le nazioni vincitrici del conflitto erano pronte a punirci pesantemente nell’imminente conferenza di pace a Parigi; inoltre la Jugoslavia comunista di Tito aveva occupato la parte meridionale di Trieste. Questi erano i principali problemi sulle spalle del 64enne De Gasperi.
Ma lui tenne duro. Subì con la massima dignità l’umiliazione di Parigi e giostrò con prudenza e abilità la delicatissima fase del referendum con cui il 2 giugno 1946 gli italiani scelsero la Repubblica: in quei giorni la guerra civile poteva scoppiare da un momento all’altro, perché i risultati definitivi tardarono moltissimo ad arrivare e Umberto II s’intestardì ad attendere la proclamazione della corte di Cassazione prima di partire per l’esilio. De Gasperi, senza ricorrere alla forza e senza provocare spargimenti di sangue, fu fermo e ricondusse il re alla ragione. Umberto II se ne andò il 18 giugno. De Gasperi assunse i poteri di capo provvisorio dello Stato fino al 28 giugno, quando l’Assemblea costituente elesse Enrico De Nicola presidente della Repubblica.
Nei mesi successivi il grande nemico fu l’inflazione. In meno di un anno, dal 1946 al 1947, la lira si svalutò del 50%. Ma un altro grande problema era la presenza dei comunisti nel governo. Il mondo si era già bipolarizzato. Il blocco occidentale e democratico fronteggiava quello sovietico e comunista. Gli Stati Uniti non vedevano di buon occhio Togliatti e i suoi uomini i quali del resto, finanziati sottobanco da Mosca, non perdevano occasione per agire secondo gli interessi di Stalin. Solo la grande freddezza calcolatrice di Togliatti riusciva a tenere a freno l’ala più scalmanata del Pci che premeva per la rivoluzione armata (che lo stesso Stalin non voleva).
In ballo c’erano gli ingenti aiuti economici americani del piano Marshall. Inoltre si stava preparando l’alleanza atlantica, la futura Nato. Era una scelta di campo precisa, che faceva da preludio ai colloqui per la creazione di una cooperazione fra le nazioni europee (l’embrione della futura Unione europea). I comunisti invece premevano per far diventare l’Italia una nazione formalmente neutrale, e dal punto di vista economico erano ovviamente imbevuti di ricette marxiste, palesemente fallimentari anche allora per chiunque non fosse accecato dall’ideologia.
Il 18 aprile 1948 si tennero le prime elezioni politiche della Repubblica. Si presentarono due grandi coalizioni: Dc e partiti laici da una parte, Pci e socialisti uniti nel Fronte democratico popolare. Le alternative erano chiare. O si stava con l’occidente e la democrazia, o si diventava un satellite sovietico. Gli italiani capirono benissimo; dopo un ventennio di dittatura e la distruzione bellica, volevano la democrazia. Fu una valanga: la Dc conquistò il 48,5% dei voti, il Fronte il 31%; agli altri le briciole.
Il 4 aprile 1949 De Gasperi firmò l’adesione dell’Italia al Patto atlantico. L’8 agosto si riunì per la prima volta il Consiglio d’Europa. In quegli anni fu varata l’importante riforma agraria, che arginò le sanguinose rivolte contadine e pose fine ai latifondi ripartendo la terra in piccoli lotti. Vennero anche avviate le trattative per formare una forza europea di difesa (CED), per la quale De Gasperi lottò fino al giorno della propria morte. Aveva intuito con notevole lungimiranza che un giorno gli Usa avrebbero tolto il loro ombrello protettivo dall’Europa, per cui sarebbe diventato necessario creare al di qua dell’Atlantico un organismo militare comune. Ma gli egoismi delle singole nazioni ebbero la meglio e la CED naufragò.
Era anche malato gravemente. Una sclerosi renale lo stava lentamente uccidendo. I suoi ultimi sforzi nel 1954 furono tutti diretti verso la Comunità europea di difesa, il suo grande sogno verso un’Europa unita. Ma la Francia stava boicottando il progetto. Cinque giorni prima di morire, scriveva ancora ad Amintore Fanfani, diventato segretario del partito, un appello appassionato. A Bruxelles si votava per firmare il trattato: “Se io potessi essere a Bruxelles sento che questa battaglia si spunterebbe. Saprei mettere certi responsabili di fronte alla propria coscienza… sono certo che non uscirebbero di là senza aver firmato“. Ma la risposta, tiepida e inutile, arrivò troppo tardi. Alcide De Gasperi morì il 19 agosto 1954 nel suo Trentino, a Sella di Valsugana. La sua ultima parola, tra le braccia della figlia Maria Romana: “Gesù!“.