di Romeo Lieto
Voce ‘e notte.
Non era la famosa canzone di Nicolardi e De Curtis, era la voce di ‘Ngiulinella ‘a ron Giuvanne, che, in piena notte, chiamava a raccolta le donne operaie, per il trasporto delle fascine, dal bosco di “Arciano” alla “Carcara”, ai “Cantarielli” di Gennarino, ’o Carcararo.
Finita la guerra, nella Bassa Irpinia, la donna che aveva necessità di lavorare per contribuire ai bisogni della famiglia, disponendo di una discreta abilità nel trasportare materiale vario sul capo oltre ad una buona agilità e prestanza fisica, aveva l’opportunità di lavorare nel trasporto non solo delle fascine, ma anche di legna, frutta ed altro, dalle campagne ai depositi siti di raccolta ed in paese. Era un particolare lavoro che non le impegnava per l’intera giornata, soltanto per alcune ore del giorno e veniva retribuito in rapporto al carico da trasportare ed al percorso da effettuare. Prestazione che oggi definiremmo a cottimo: quanto più viaggi e consegne facevano, tanto maggiori erano i compensi in lire. Questo lavoro, oggi non è più praticato per indisponibilità delle operatrici.
Consisteva nel trasportare la merce sul capo della donna, da questo separato da un panno o tovaglia di stoffa morbida ‘o curuoglio, attorcigliato a mo’ di corda, che una volta posizionato tra la merce e la testa della portatrice, aveva la doppia funzione di distanziatore e di ammortizzatore; per il ‘curuoglio, le donne, spesso utilizzavano anche ‘o mantesino, ossia il grembiule che solitamente indossavano a protezione del vestito. La merce trasportata variava, dalla frutta nelle ceste in legno di castagno o di vimini, ai prodotti della terra in sacchi di iuta, a volte tavolame ricavato da tronchi e fascine di frasche legate in una o più parti, secondo la loro lunghezza. Anche il peso variava, tra i venti ed sessanta chilogrammi e qualche volta anche più, in dipendenza della merce e del volume del contenitore.
Alcune portatrici contadine camminavano a piedi nudi, altre invece, calzavano ai piedi ‘i papusci, calzature davvero particolari, realizzate con pezzi di vecchi copertoni di biciclette o motocicli cuciti ai plantari di vecchie calze. Partendo da zone collinari, camminando con passo sicuro, su viottoli tortuosi e scoscesi, trasportavano la merce, nelle condizioni in cui l’avevano prelevata, nel luogo indicato dal committente. Il trasporto della frutta, come le ciliegie, prugne, albicocche, ed altro, veniva effettuato esclusivamente dalle donne, mai da animali da soma, che trasportando il carico con sbalzi e movimenti ondulatori, ne causavano il deteriorarne l’aspetto e la qualità del prodotto. In genere il trasporto di frutta veniva effettuato dal primo pomeriggio fino all’imbrunire, in quanto in mattinata si consentiva ai raccoglitori di predisporre una cospicua quantità da trasportare.
‘Ngiulinella a notte fonda fa la “chiamata”
Era notte fonda, circa le due e trenta del mattino, la gente dormiva e l’alba era ancora lontana, quando nei vicoli del centro storico dei Vesuni, la voce accorata di Ngiulinella ‘a ron Giuvanne fendeva il silenzio della notte e con tono cadenzato chiamava a raccolta le donne da avviare al lavoro, in un bosco ceduo, a circa due ore di cammino dal paese. Le donne venivano chiamate con nomi di battesimo, come: Filumè, Carmè, Stefanì, ed in caso di omonimia utilizzando il soprannome: Russulè, Sisinè, ecc. Alla chiamata seguiva sempre una voce di assenso e solo in qualche caso il riscontro era: “Non vengo”.
Prima di avviarsi, l’adunata delle chiamate avveniva all’incrocio di tre strade, davanti ad un Grande crocifisso in legno della fine dell’Ottocento, di autore ignoto, restaurato dalla mano sapiente di un abile imbianchino, tale Mastro Vincenzo ‘o pittore’. Qui la caporale ‘Ngiulinella”, verificava le presenti e con passo spedito, seguita dal gruppo, si incamminava verso il bosco, luogo di raccolta delle fascine, da caricare sul capo e da trasportare alla calcara, a valle ai “Cantarielli”, da Gennarino ‘o Carcararo.
Molte volte, di notte, sulle strade di campagna, il chiarore lunare rifletteva sul terreno le cime degli alberi, rappresentando ombre di strane figure, con sembianze di esseri umani ed anche di animali. Figure che generavano sul gruppo, che procedeva compatto, il timore di incontri imprevisti; e le donne, per farsi coraggio e superare quelle strane ombre, parlavano vociando anche di cose futili, quasi volessero avvertire, della loro presenza, le figure riflesse. Capitava anche che il gruppo veniva all’armato da un improvviso fruscio che si avvertiva nella siepe fiancheggiante la strada, generato dalla precipitosa fuga di qualche animale, impaurito dal passaggio della comitiva.
Il gruppo raggiungeva il luogo della raccolta delle fascine al primo chiarore dell’alba ed al comparire della prima luce del giorno, nel momento in cui si levava un leggero venticello mattiniero che muoveva le cime degli alberi, invitando la natura al suo risveglio. Sul posto, le donne, si sparpagliavano nel bosco per la raccolta delle fascine per formarne il fastello da trasportare ed assorte nel proprio compito, facilmente distoglievano dalla loro mente le visioni e le paure della notte.
La carcara trasformava il pietrame…in calce. Era alimentata dalla combustione di quintali di fascine
La carcara di Gennarino era una complessa costruzione- come tutti gli opifici del genere- in pietra calcarea a forma cilindrica aperta al cielo, del diametro di circa quattro metri ed altezza interna di pari dimensioni. Era incassata ai piedi di un terreno scosceso, tenuta da un muro perimetrale di contenimento largo quasi un metro, con il diametro di base leggermente inferiore a quello superiore. Su un lato aveva una bocca per l’alimentazione della legna, di forma rettangolare. Veniva caricata fin quasi alla sommità da pietrame calcareo, scelto e disposto esclusivamente dalle mani sapienti dall’artista, gestore ed imprenditore, Gennarino.
La disposizione del pietrame veniva fatta in modo da lasciare molte intercapedini tra una pietra e l’altra, per consentire il passaggio del fuoco, alimentato in continuazione, giorno e notte per circa dieci e più giorni, finché la pietra calcarea si cuoceva e diventava calce viva. Per l’alimentazione continua del fuoco, gli addetti erano presenti ed operativi notte e giorno; vi lavoravano sempre più persone che si alternavano nel controllo del fuoco.
‘Ngiulinella, la caporale delle donne, era soprannominata ‘a ron Giuvanne. Era una donna di corporatura imponente, alta più di un metro e ottanta e con un fisico che sovrastava tutte le altre. Esercitava anche il mestiere di sensale, procurando, su incarico di piccoli commercianti, prodotti agricoli quali fagioli, patate, granone, ecc. e per qualche facoltoso imprenditore, prodotti più costosi come nocciole, castagne, ciliegie ecc. La sua principale attività era quella di procurare le operaia da impiegare nel trasporto di prodotti agricoli, come frutta ed altro, dalle campagne e dai boschi.
Abitava nel quartiere dei “Vesuni” di Baiano, in fondo ad un cortile, in un vicolo cieco, nel centro storico del paese, in un basso con funzioni di zona giorno ed in una camera in primo piano, in verticale di proprietà di terzi, che fungeva da zona notte. Con lei il marito, anch’esso sensale ed un’unica figlia, nubile, molto alta, con una corporatura imponente, una vistosa difficoltà a deambulare ed un’andatura dondolante, per la naturale posizione dei piedi rivolti verso l’esterno. Inconveniente dovuto, forse, a qualche malattia mal curata nell’età infantile.
Il trasporto delle fascine alla carcara di Gennarino veniva effettuato a fine giugno – inizio luglio, periodo idoneo per produrre e vendere l’ossido di calce o calce viva, ottenuto dalla cottura della pietra calcarea; calce viva che una volta stemperata nell’acqua, diventava calce spenta e poi, miscelata con sabbia e cemento veniva utilizzata nelle costruzioni. Nel gruppo delle operaie che trasportavano le fascine, vi era anche una giovane contadina con il figlio di circa nove anni che la seguiva aggrappato al suo braccio, con il volto assonnato e gli occhi socchiusi per l’insufficiente riposo. Il ragazzo non poteva rimanere solo in paese ed in casa, per un’intera giornata e poi, sul lavoro si rendeva utile trascinando a valle, alla calcara, due fascine per volta, permettendo alla madre di fare un trasporto in meno.
Completato il numero di viaggi convenuti, la contadina con il figlio si portavano su un’altra collina a circa mezz’ora di cammino, in un loro terreno, per continuare un altro lavoro. Qui, estirpavano gli steli dei fagioli con i baccelli, che poi costipavano in un vecchio lenzuolo di stoffa e trasportavano il tutto, sul dorso o sulla testa, nell’aia per completarne l’essiccazione al sole.
Nel primo pomeriggio effettuavano la battitura dei baccelli essiccati col vavillo – caratteristico attrezzo dei contadini, formato da un’asta in legno con ancorato all’estremità altro legno di peso maggiore- per la sgranatura dei semi dai baccelli; seguiva la rimozione degli steli e formato un mucchio di semi e residui della battitura, procedevano al lancio del composto in aria, per liberare i semi dai residui. Questa operazione veniva eseguita quasi al tramonto del sole, per cui, all’imbrunire, caricato sulle spalle la quantità di semi ricavati, facevano ritorno al paese.
Qui vi giungevano con le luci della sera accese; il tempo di lavarsi, effettuare il pasto serale e crollare sfinite nel letto, in attesa della voce della notte che chiamava a raccolta per il trasporto delle fascine.
Quando nelle campagne si effettuava la raccolta dei prodotti della terra, come fagioli, patate, ecc, il lavoro era eccessivo e con il trascorrere dei giorni, nelle donne, affiorava la stanchezza per il mancato riposo; fattore che, a volte, le costringeva a rispondere alla chiamata della voce della notte : “Non vengo”.