L’esposizione all’amianto è senz’altro causa di patemi d’animo e turbamenti per chi ha lavorato per anni senza adeguate protezioni, come tanti lavoratori italiani che ancora oggi ne pagano le conseguenze così come i loro familiari che ne hanno visti tanti strappati alla vita. Di questo ne ha parlato più volte evidenziando analoga consapevolezza maturata nella giurisprudenza, anche di legittimità secondo la quale anche la paura di ammalarsi di cancro per un lavoratore che ha placche pleuriche per essere stato esposto per lungo tempo all’amianto deve essere risarcita. È quindi, legittima la parametrazione del danno morale ai patemi e turbamenti provati per il sospetto di una malattia futura, correlata al maggior rischio di contrarre il mesotelioma (tumore maligno) rispetto a soggetti con storie espositive comparabili non affetti da placche pleuriche (paura di ammalarsi). Peraltro, le prestazioni del fondo vittime dell’amianto sono comunque cumulabili con il risarcimento a carico del datore e le rendite Inail, diretta o in favore dei superstiti. Ad affermare questi importanti principi, la sentenza 24217/17, depositata il 13 ottobre dalla sezione lavoro della Cassazione. Nella fattispecie è stato rigettato il ricorso dell’autorità portuale avverso la sentenza resa dalla Corte d’Appello di Venezia che l’aveva condannata a risarcire i danno patrimoniali e non ad un dipendente che aveva lavorato per anni quale scaricatore di porto e poi ammalatosi per l’inalazione delle microfibre di asbesto. Per i giudici di legittimità dev’essere affermata la responsabilità ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile nei confronti dell’Autorità Portuale che dal ’95 è subentrata al provveditorato del porto e non ha introdotto l’uso delle mascherine nello svolgimento delle operazioni. Anche se il dipendente aveva cominciato a lavorare nel lontano 1968, non si può certo affermare che all’epoca non si conoscessero i rischi dell’asbesto, come già da tempo la Corte di Cassazione ha ricordato la raggiunta conoscenza di tale pericolosità ai primi anni del Novecento (cfr., ex plurimis, Cass. n.4721/1998; Cass. n.18626/2013; Cass.n.18041/2014; Cassi 7258/2016). Pertanto, per quanto puntualmente questa Corte ha ricostruito in materia di lavorazioni pericolose ed esposizione alle polveri di amianto, di cui in questa sede giova citare soltanto il R.D. n.442/1909 che, approvando il regolamento per il T.U. della legge per il lavoro delle donne e dei fanciulli, all’art. 29, tabella B, n. 12, già includeva la filatura e tessitura dell’amianto tra i lavori insalubri e pericolosi nei quali l’adibizione delle donne e dei fanciulli era vietata o sottoposta a speciali cautele, con una specifica previsione dei locali ove non era assicurato il pronto allontanamento del pulviscolo. Alla datrice di lavoro doveva essere ben nota l’intrinseca pericolosità delle fibre d’amianto, materiale il cui uso risulta fin dal principio dello scorso secolo sottoposto a particolari cautele, indipendentemente dalla concentrazione di fibre per i periodi temporali di esposizione per attività lavorativa. In definitiva, il risarcimento riconosciuto è legittimo e la Corte d’Appello ha commisurato il danno morale spettante all’appellante precisamente al patema e al turbamento provati per il sospetto di malattia futura, correlata al maggior rischio di contrarre il mesotelioma (tumore maligno) rispetto a soggetti con storie espositive comparabili non affetti da placche pleuriche (paura di ammalarsi). Perciò la quantificazione del danno morale, lungi dal conseguire da meccanismi semplificati di liquidazione automatica, è scaturita da un’adeguata e circostanziata “personalizzazione” del pregiudizio subito e, pertanto, risulta adeguata ai criteri generalmente accolti.