Firenze – Il maltempo picchia duro e fa male in Emilia-Romagna, in Toscana, in Veneto. Al sud come al nord, con gli eventi che si rincorrono e si affastellano nelle cronache. “Succede e succederà quest’anno, l’anno prossimo, tra dieci anni. Perché il problema del dissesto geologico in Toscana, così come in tutta Italia e direi in gran parte dell’Europa meridionale, è un ormai cronico”. Lo segnala all’Agenzia Dire Nicola Casagli, geologo, docente all’Università di Firenze, presidente dell’Ogs (l’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale) e membro della commissione grandi rischi che supporta la Protezione civile.
La questione parte da lontano ed è legata “a due fattori ugualmente importanti”: il cambiamento climatico e il massiccio consumo di suolo. Il primo ha cambiato il volto delle piogge. In generale, guardando alle medie annue, “piove meno, ma in maniera più violenta e concentrata su aree ristrette”. E qui Casagli va dritto al punto: “Gli eventi che avvengono e che avverranno nei prossimi anni saranno di una violenza tale da mettere in crisi qualsiasi territorio, indipendentemente dalle opere che si possono fare. Perché, quando piovono 200, 300, 400 millimetri di pioggia in poche ore, pressappoco la metà della pioggia che cade a Firenze in un anno, non c’è territorio che tenga per quanto lo possa regimare”. Questa “è una cattiva notizia”, un fatto che “però contiene anche degli aspetti positivi: non ci aspettiamo più alluvioni ricorrenti tipo quella di Firenze del ’66. Che non fu solo l’alluvione a Firenze, ma anche del nord-est Italia. Voglio dire, cose così grandi ed estese non saranno impossibili, ma più rare”. Tuttavia, per stare in Toscana, “eventi come a Livorno nel 2017, a Campi Bisenzio nel 2023, a Marradi nel 2023 e di nuovo nel 2024, sono ormai da mettere all’ordine del giorno”.
C’è poi il secondo fattore di peso specifico uguale al primo, il consumo di suolo. “Abbiamo costruito in maniera troppo allegra e disinvolta dovunque, in zone franose, alluvionabili, nelle golene dei fiumi, sugli argini e su pendii instabili, sui vulcani e sulle faglie. E continuiamo a farlo perché il consumo di suolo, monitorato ogni anno dall’Ispra, non accenna a diminuire”. E qui l’ingranaggio si inceppa soprattutto per una questione economica: “Costruire su un terreno vergine costa molto meno che recuperare un’area dismessa”. Proprio per questo se sul cambiamento climatico il processo di inversione della rotta, a cui si dovrebbero legare le politiche dei Paesi del globo, “è molto lungo”, sul consumo di suolo “c’è più possibilità di agire, ad esempio rendendo più conveniente, anche con incentivi istituzionali, costruire sul costruito e demolire tante schifezze fatte in passato per ricostruire in maniera più appropriata”.
Questo è il quadro descritto da uno dei massimi esperti su piazza: “C’è una combinazione di due fattori e su uno è difficilissimo incidere. Sull’altro, invece, si potrebbe agire. Tutto il resto sono palliativi. Per carità- precisa- tutto fa bene, però quando piovono 2-300 millimetri di pioggia…”. La chiave, quindi, “è imparare a convivere con il rischio. E cito le Nazioni Unite: al primo posto del protocollo di Sendai c’è proprio la comprensione del rischio dei disastri. Bisogna comprendere come funziona un fiume, una frana, un terremoto. E farlo comprendere ai cittadini, che, se lo fanno, si possono difendere meglio. Mi spiego: i 226 millimetri di pioggia caduti sulla costa toscana sono una quantità spaventosa. Non c’è territorio che possa resistere. Ma le persone possono organizzarsi per subire meno danni possibile”, salvandosi la vita.
“Ancora oggi, infatti, la gran parte delle vittime, così come dei danni alle persone, succedono per comportamenti sbagliati. Faccio un esempio tipico: inizia a piovere forte. C’è l’allerta meteo, ma non ci faccio troppo caso ed esco per spostare la macchina. Questa è la cosa più stupida da fare: quando ho più di 50 centimetri d’acqua sul terreno la macchina comincia a galleggiare; quando ne ho più di 80 non si aprono più gli sportelli e resto in trappola. Se questa cosa la insegnassimo a scuola guida, un sacco di persone si salverebbero. Si muore in macchina durante le alluvioni, raramente in casa. Succede anche quello, ma è molto più difficile”.
Torna urgente e ciclica, però, la riflessione (e le polemiche) sul sistema di allertamento. Un nodo che per Casagli si deve sciogliere mettendo a sistema e meglio i dati che la macchina in gran parte già possiede. “Fino al 2010-12 l’allertamento era incomperabile dalla popolazione. Poi sono stati introdotti i codici colorati: giallo, arancione e rosso. Lì, con il sistema a semaforo, le persone hanno cominciato a capirlo. E posso testimoniare, anche sulla base dell’esperienza maturata in commissione grandi rischi, che il piano ha salvato molte vite”. Il punto, piuttosto, sta nel modo con cui vengono maneggiati i dati. “Nel sistema di allertamento nazionale è già incorporato il monitoraggio satellitare”. A fianco di questi ci sono “le reti di sensori a terra. Dieci, quindici anni fa costavano un sacco di soldi”, adesso che le spese si sono decisamente abbassate “li possiamo disseminare a centinaia di migliaia sul territorio. Questo già avviene”, però “tutte le attività sono un po’ scoordinate. I progetti sono tanti, ma non c’è un sistema organico e integrato capace di mettere insieme tutti gli attori per poter suonare insieme come in un’orchestra. Ci sono tanti solisti, tanti dati e informazioni, ma ancora siamo un po’ lontani dal farli suonare insieme, in maniera armonica. Ecco, c’è bisogno di questo”.
fonte «Agenzia DIRE»