
di Stefano Acierno
A proposito di “memorie di una Janara…
C’è sempre un’eco di voci lontane che popolano il nostro mondo: Sanno di antico seppur vivificano la lingua che parliamo; salgono alla mente come richiami istintivi fra i pensieri; ci vestono irrimediabilmente di una storia che ci è stata tramandata e che perpetuiamo fra gli altri. Le memorie di una janara, che echeggiano, appunto, i racconti che “nononna” faceva alla piccola Emanuela, sono l’interpretazione autentica, rinvenuta in loco, nella sua Guardia Lombardi, come veicolata dalla tradizione orale, di un tempo magico su cui si fonda la coscienza dei posteri a rielaborare la tragicità della storia, ripensarne gli errori, valutare i punti deboli della verità costituita, affidarsi alla saggezza popolare.
Sono memorie che riconducono al tempo in cui gli uomini usarono violenza a molte donne libere che non volevano soggiacere al ruolo ch’era stato loro imposto, ma si sottraevano alle liturgie ed alle asfissianti regole sociali ricorrendo talora alle proprie conoscenze, mediche ma perfino esoteriche, per alleviare la vita, così come è avvenuto, da che mondo è mondo, un po’ dovunque e con la sola colpa, a volte, di aver detto magari no ad uomini potenti, poi pagando con la vita, arse vive, in una folle persecuzione che le dichiarò schiave del demonio e che spesso – fa capire con penetrante analisi Emanuela Sica – era lo sfogo sordido per inconfessabili pulsioni, esorcizzate attribuendole al malefico.
E’ un libro con contenuti vari, che riporta, annotati scrupolosamente dall’autrice, i dati della storiografia relativa alla caccia alle streghe in varie parti dell’Italia e dell’Europa e si dipana lungo il racconto immaginario del ritrovamento di un diario in cui una janara (strega) narrava di sé ai due ragazzi che leggevano e, con un sortilegio, lasciava aprire il campo al presente, alla ricerca della discendenza di quella. Ma lungo quella narrazione vi sono anche tanti raccontini avvincenti che inquadrano personaggi del posto, oltre a cantilene con cui la Janara descrive le sue pozioni magiche, realizzate con infusi di erbe officinali, e tante poesie, visionarie ed abbaglianti, nello stile immaginifico che è tipico di Emanuela Sica.
Io ho trovato soprattutto interessanti quei raccontini, scritti in dialetto, con la traduzione italiana affianco, che richiedono calma per poterli seguire senza traduzione, ma rendono così meglio la stentorea veracità culturale, con la risonanza che derivava nel sentimento popolare, apprezzandosi insomma quella sonorità che fornisce un’idea. Non devo essere io, del resto, a spiegare che l’utilizzo precipuo, in letteratura, della lingua parlata in un territorio fornisce una chiave interpretativa più fedele ed efficace (è “il grado zero della scrittura” su cui si soffermo’ Roland Barthes).
E quei racconti, immaginari che li si voglia, riportano alla storia di quelle terre tali da sembrarmi, in definitiva, narrazione non molto diversa da “Lo cunto de li cunti” (ovvero “lo trattenimiento de peccerille”), fiabesco resoconto delle disavventure umane, nè dal Decamerone stesso o dalle novelle di Andersen e dei Grimm, libri tutti che erano in realtà manuali di vita affidati alle generazioni successive perché traessero insegnamento dalle storie del passato. Ne aveva ben colto il significato culturale Pasolini, che ne trattò a suo modo.
Peraltro un tentativo letterario vernacolare sulla Irpinia remota, analogo a quello che – con più poesia però e maggiore denunzia civile – ha svolto in questo libro la Sica, lo aveva di recente tentato anche Vinicio Capossela, figlio di quella stessa terra, con il suo “il paese dei coppoloni”, dove immancabilmente erano citate anche le “Masciare”.
Si tratta di un libro, insomma, che in quei bozzetti riesce a rendere vivo il mondo rurale delle zone interne del nostro mezzogiorno e, a me sembra, ritrae scene di vita al modo di W. Faulkner.
Che vi sia una certa qual immedesimazione da parte della scrittrice non è difficile immaginarlo e non solo perché le sue poesie e i racconti sono sempre, anche indirettamente, un inno alla sua terra e alla sua cultura sapienziale, per quante sofferenze e privazioni e malvagità possano allignarvi, e perchè ha dato ai due protagonisti i nomi dei suoi figli, ma anche perché il finale a sorpresa lascia immaginare che oggi ci si possa in qualche modo identificare nelle discendenti di quella Janara e, fra le altre donne di lì, Emanuela è notoriamente impegnata nella lotta per la parità e contro la violenza di genere e, oltre ad essere avvocato, scrittrice e giornalista, si occupa anche managerialmente di turismo delle radici.
Il libro è comunque costellato di sue poesie, fra le quali vorrei per concludere riportare questa:
Ho bisogno di lasciar andare
il circolo dei pensieri dal cuore alla penna
prima che il mio tempo si fermi
frugare nei singhiozzi
mutarli da paura in slanci
curare le ferite che nessuno vede
asciugare disincanti dagli occhi
con pezzuole di sorriso
Sarà questo il destino
di chi annoda parole
per vincere la staffetta dei giorni
che sfila la vita dalle mani
Forse resterà soltanto l’inchiostro
a dire chi siamo stati
finalmente liberi dall’agonia
d’essere fraintesi.
Il libro lo si può acquistare qui: