Carissimi fratelli e sorelle della diletta Chiesa di Nola, la pace sia con voi tutti! Duecentosettant’anni fa, nella nostra amata città di Nola, proprio dalla nostra cattedrale, sant’Alfonso Maria de’ Liguori, ospite per la predicazione della novena dell’Immacolata, ha donato a tutto il mondo l’ormai celeberrimo canto che racchiude nelle sue luminose parole tutta la teologia del mistero dell’Incarnazione e con le sue dolci note accende ovunque la vera atmosfera spirituale del Natale : “Tu scendi dalle stelle”.
Da quel dicembre del 1754, ogni anno, questa nenia natalizia ci ha aiutato ad allestire con lo sguardo e con l’udito il più bel presepe, per custodire nel nostro cuore la memoria vivente di Dio fatto bambino che pone “la sua tenda in mezzo a noi” (cfr. Gv 1,14). Ed è così che i nostri occhi sono diventati del celeste riflesso luccichio delle stelle e le nostre orecchie come una culla dove la Parola è adagiata soavemente dalla voce della madre Chiesa raccolta in preghiera. Che mistero grandioso! La Parola attraverso il canto si fa storia, affinché il Verbo eterno diventi carne nella nostra carne.
La contemplazione del mistero del Natale in Sant’Alfonso ha tre passaggi che egli con competenza teologica e ardore spirituale racchiude nelle strofe del suo
canto. Mi piace accostare la sua meditazione a quelle che furono le solenni definizioni del Concilio di Nicea, del quale nel prossimo anno celebriamo i 1700 anni (325 – maggio – 2025).
“Tu scendi dalle stelle e vieni in una grotta…” Il Concilio di Nicea, rispondendo alle controversie cristologiche del IV secolo – di chi negava l’origine divina e trinitaria di Cristo, affermando che si trattava semplicemente di una certa “adozione” del figlio Gesù da parte del Padre Dio – decretò in maniera definitiva quello che noi professiamo nel Simbolo della fede il quale prende il nome proprio da questa prima assemblea ecumenica della Chiesa e cioè che il Figlio e il Padre sono della “stessa sostanza” (in greco ‘ομοούσιος τῷ Πατρί /homooúsios tô Patrí). Il Figlio incarnato, dunque, non è altra cosa rispetto alla natura divina e neanche venendo sulla terra la tralascia, ma è l’Eterno stesso che nella persona del Figlio Gesù viene ad abitare in mezzo a noi. Questa verità di fede non è una semplice sottigliezza speculativa, ci è essenziale per comprendere che nel mistero dell’incarnazione Dio non ha voluto solo darci l’esempio della condivisione, non è solo una vaga solidarietà con la nostra natura umana, ma Dio stesso nella vera umanità di Gesù, unita al Figlio, rivela sé medesimo. In tal modo per grazia la realtà umana diventa manifestazione di Dio, parla di Dio ed è capace di trascendere sé stessa in Dio; è vero che è Dio a farsi uomo, ma affinché l’uomo sia divino. In un tempo in cui sembra che la natura umana sia solo limite e fragilità, il Natale del Figlio di Dio fatto uomo, al contrario, ricorda e annuncia a tutti che anche noi siamo fatti di “polvere di stelle” e non di fango e di miseria. Diventiamo anche noi – in certo modo – “consustanziali” al Padre perché figli nel Figlio. Tale è l’admirabile commercium, espressione caratteristica coniata dai Padri della chiesa per sintetizzare il cuore del messaggio cristiano; ossia: lo “scambio miracoloso” che avviene nel Natale tra il divino e l’umano, per cui Dio assume la natura umana, affinché l’essere umano possa essere divinizzato. Uno scambio che sebbene mantenga la sua radicale imparità (la gratuità dell’amore), è tutto a vantaggio della nostra condizione umana ed è realizzato solo per amore e per grazia di Dio. Attraverso la riflessione dei padri orientali e in particolare di Sant’ Ireneo di Lione, la “formula dello scambio” è divenuta, nei primi secoli, la carta d’identità dei cristiani. È forse giunto il tempo di rivalutarla soprattutto nel nostro presente. Oggi che i tratti del transumanesimo, con le sue pretenziose logiche di immortalità e onnipotenza, con le derive dell’intelligenza artificiale e delle manipolazioni genetiche, tendono a offendere e trascurare la realtà vera dell’umano redento da Dio. Il recupero del concetto cristiano di “divinizzazione” è la preziosa risposta alla speranza più profonda che abita da sempre il cuore dell’uomo.
“O Bambino, mio divino, io ti vedo qui a tremar… O Dio beato, quanto ti costò l’avermi amato…”. L’eresia degli Ariani metteva in discussione che Gesù fosse di natura divina; a Nicea i Padri stabilirono che in Cristo le due nature coesistono e senza mai annullarsi reciprocamente. Professando, pertanto, che Gesù Cristo è “vero Dio e vero uomo”, siamo chiamati nel contempo a prendere sul serio la nostra umanità e ogni umanità, specie quella fatta di carne ferita e offesa dalla violenza e dall’ingiustizia e dal malaffare. Si potrebbe dire che, come al concilio di Nicea si affrontò il dramma dell’eresia trinitaria e cristologica, oggi bisogna combattere una certa “eresia antropologica” che minaccia la verità dell’uomo creato da Dio a sua immagine e somiglianza. Quel Bambino divino tremante nel presepio, infatti, prelude al Crocifisso di Nazareth freddato sulla croce del Golgota e in tutti i “venerdì santo” della storia dell’umanità. L’amore che Dio ha per noi gli è costata il caro prezzo della passione di cui il Figlio Gesù si fece carico. Come non pensare perciò a tanti bambini cui “mancan panni e fuoco”, come canta Sant’Alfonso, e che ancora oggi tremano per il freddo e la paura sotto i bombardamenti a Gaza, in Israele, in Libano, in Siria, in Ucraina e in ogni parte del mondo a causa della guerra, della fame, dell’emergenza abitativa, dell’abuso, della sopraffazione. Non possiamo permettere che quel Bambino divino continui a tremare nel grido silenzioso dei tanti, troppi, aborti. Non possiamo permettere che la carne dei poveri, dei senza tetto, dei lavoratori precari sia terrorizzata da politiche disumane e contrarie alla dignità della persona. Non possiamo permettere che gli immigrati, anche sul nostro territorio diocesano, siano rifiutati e esclusi o sfruttati e aggrediti. La carne umana è carne di Cristo e merita sempre protezione e accoglienza.
“Caro eletto pargoletto, quanto questa povertà più mi innamora… giacché ti fece amor povero ancora…” Sant’Alfonso, contemplando con gli occhi della fede il ambinello nella povertà della mangiatoia, s’innamorò della povertà che per lui diventava essa stessa lo strumento attraverso il quale Dio si fa amore. Mi piace collegare la virtù della povertà con il mistero della verginità di Maria che fu anch’esso tema affrontato nel Concilio di Nicea, come professiamo nel Credo: “…si è incarnato nel seno della vergine Maria”. La verginità di Maria più che con la sfera della sessualità, ha a che fare con quella della povertà.
Maria è chiamata a generare rimanendo povera, espropriandosi anche dei suoi sogni, dei suoi desideri, delle ricchezze delle sue pur legittime aspirazioni di madre e di donna. Anche il parto è povero, senza una stanza adeguata.
Deve fidarsi totalmente di Dio e affidarsi a Colui che, come ella stessa canta nel Magnificat, “ha guardato all’umiltà della sua serva”. Dio ha apprezzato il suo essere tapina, minima, povera… Siamo chiamati, dunque, con Sant’Alfonso a guardare e ad innamorarci di questa povertà che diventa la sostanziale compatibilità con la scelta di Dio e con la logica del Vangelo. Solo una terra vergine, dissodata dalle pietre dell’orgoglio, dell’indifferenza cinica ed individualista, della conflittualità rivendicativa e vendicativa, del tornaconto, dell’interesse e del profitto e di ogni forma di inquinamento, può partorire Cristo ancora oggi. Essere “vergini” significa amare nella più pura gratuità senza possedere l’altro, senza asservirlo alle proprie pretese. Lo riaffermiamo in un tempo in cui sembra voler affermarsi una certa violenza di genere, un ritorno dei nazionalismi gretti ed egoisti, un tentativo costante di sopraffare con la propria prepotenza anche attraverso la multimedialità e la comunicazione massmediale. Nel cammino sinodale stiamo sperimentando anche una povertà di mezzi e risorse che rendono la Chiesa più povera, non solo economicamente, ma soprattutto di quell’attrezzatura per rispondere all’istanza di cambiamento del nostro tempo. Siamo più poveri di collaborazioni, di vocazioni, di partecipazione alle celebrazioni liturgiche. Anche in questo abbiamo bisogno di una speranza “vergine”, che ci renda sempre più consapevoli che come è accaduto per Maria durante l’Annunciazione, ancora oggi l’Angelo dice alla Chiesa: «lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra» (Lc 1, 35). Da questa certezza nasce la Speranza!
Di questa speranza, che è Giubileo per tutta l’umanità, vogliamo farci pellegrini come ci ricorda il motto dell’anno santo che stiamo per iniziare. Attraversiamo la porta di Cristo, per un passaggio continuo dalle stelle alla grotta andata e ritorno. Squilli lo Jobel e il suono di questo corno annunci un anno di conversione, di pace, di riscatto, di liberazione e promozione umana. Sia tempo di indulgenza per tutti, perché la terra possa riposare, ogni debito sia condonato, ogni offesa perdonata con la misericordia che il Signore non ci fa mai mancare.
Coraggio, pellegrini di Speranza: varchiamo la Porta Santa con le chiavi della fiducia nel futuro e non saremo confusi in eterno. Buon Natale a tutti e a ciascuno!
Francesco, vescovo