Oggi 19 gennaio la chiesa celebra san Bassiano di Lodi, nacque a Siracusa nel 319, da Sergio un alto magistrato pagano che lo inviò a Roma per completare gli studi e avviare la carriera. A Roma si convertì cristiano, da un sacerdote di nome Giordano, ricevette il battesimo. Richiamato in patria dal padre che lo voleva far apostatare si spostò a Ravenna, dove fu ordinato sacerdote. Verso il 373, essendo morto il vescovo della città di Laus Pompeia (oggi Lodi Vecchio), fu scelto a succedergli anche, come sembra, per un intervento soprannaturale. Nel 387 inaugurò fuori dalle mura la prima basilica di Lodi, dedicata ai dodici apostoli. Essa venne consacrata da sant’Ambrogio, vescovo di Milano, e dal suo coadiutore san Felice, dal 386 primo vescovo di Como. L’edificio sopravvisse alla distruzione dei milanesi nel 1158 al tempo delle guerre contro il Barbarossa. Nel 390 partecipò al sinodo milanese indetto da Ambrogio per controbattere alla predicazione dell’eretico Gioviniano (già confutato da Sofronio Eusebio Girolamo). Firmò, insieme ad Ambrogio, la lettera sinodale al papa Siricio (sul seggio papale dal 384 al 399). Nel 397 (come riferisce Paolino di Milano, biografo di Ambrogio), assistette ai funerali del grande vescovo nel momento della sua morte, del quale era amico. Governò la sua Chiesa per 35 anni e 20 giorni, morì l’8 febbraio 409, a 90 anni.
19 gennaio: san Catello di Castellammare di Stabia, sulla vita di Catello si sa davvero molto poco. Il nome Catello è di origine latina e deriva da catellus, diminutivo di catulus che significa “cucciolo”. Fu vescovo di Castellammare di Stabia, visse all’epoca dell’invasione longobarda, tra il VI ed i VII secolo d.C., quando devastarono la Campania distruggendo diversi complessi religiosi. Si sa che ebbe una vita molto sofferta: sul monte Faito dove spesso si rifugiava in preghiera insieme a sant’Antonino, fuggito dall’abbazia di Montecassino, si rifugiò presso lo stabiese, ed insieme decisero di rifugiarsi sul monte Aureo, l’odierno monte Faito. Una notte l’arcangelo Michele comparve in sogno ai due pii uomini ordinando loro di costruire un tempio in cima all’altura dove si vedeva ardere un grosso cero. I futuri santi obbedirono ed edificarono un piccola struttura in legno, dedicata proprio a san Michele, lì nel punto in cui riconobbero i segni indicati dall’arcangelo e cioè sull’attuale monte sant’Angelo. Si racconta che durante l’invasione turca a Sorrento un parte del popolo si rifugiò sul monte Faito per chiedere aiuto all’arcangelo. Egli di risposta fece sgorgare dalla propria statua gocce di sudore. Il giorno dopo la città fu liberata dagli invasori. Ma prima che l’abbazia raggiungesse questi fasti, poco dopo la sua costruzione, Catello fu vittima di calunnie, da suoi “familiari” (forse si intende vescovi di diocesi vicine), e fu accusato da papa Pelagio II di non preoccuparsi dei propri fedeli cercando, invece, una vita eremitica lontana dal popolo. Catello, uomo di fede, accolse la momentanea ingiusta decisione con estremo spirito di sopportazione chiudendosi in contemplazione. Stretto in continua meditazione ed ispirato da sapere divino, Catello predisse al diacono, (suo temporaneo custode di cella) la sua futura elevazione a pontefice. Alla morte di Papa Pelagio II, la predizione fatta nelle carceri ebbe ad avverarsi: il diacono carceriere, fu eletto papa con il nome di Gregorio Magno. Il nuovo Papa preso dai mille impegni sottoposti nel quotidiano dalla Chiesa, non avendo tempo e modo ben presto ebbe a dimenticarsi del tutto del vescovo Catello. Leggenda vuole, però, che, papa Gregorio Magno, grazie alle rivelazioni avute in sogno da un monaco benedettino (presumibilmente sant’Antonino), avendo in ricordo la predizione di Catello (fattagli tempo addietro nelle carceri), resosi conto dell’ingiusta prigionia, decise di scagionarlo e gli riaffidò la diocesi di Stabia: tornò trionfante in città, accolto dall’amico Antonino, poi divenuto abate in Sorrento.
19 gennaio: san Macario il Grande, nacque nell’Alto Egitto e passò la sua giovinezza pascolando bestiame; seguendo poi quella chiamata alla vita ascetica che andava diffondendosi sempre più, si ritirò in una cella dedicandosi alla preghiera e a semplici lavori manuali, come la fabbricazione di ceste di giunco. Il racconto di come se ne andò nel deserto di Scete, a sud ovest del Delta del Nilo. Andò a Scete verso il 330 e passò là i successivi sessanta anni, divenendo l’anziano più riverito di tutta la comunità e il principale organizzatore della vita monastica in quel luogo. La forma di monachesimo anacoretico praticato a Scete era basata sui “detti” dei Padri antichi e non su una regola scritta, come avveniva invece nelle comunità monastiche derivanti da san Pacomio. Molti di questi detti, nella raccolta fatta intorno al 500 (Apophthegmata Patrum), vengono attribuiti a Macario, e alcuni di essi narrano di incontri con il diavolo e i demoni, dai quali Macario, soprattutto grazie all’umiltà, usciva vittorioso, altri invece sono semplici e brevi consigli. Nel 339 venne ordinato prete e si affermò come padre spirituale di quel deserto. Egli fondò un primo gruppo di discepoli tra cui Sisoe, Isaia, Aio: dopo il 356 la colonia monastica di Scete era già numerosa, così si creò un secondo gruppo di discepoli tra cui Mosè e Pafnuzio. Era una grande guida spirituale e, a parte i “detti”, gli viene attribuita una vastissima letteratura, che consiste in cinquanta omelie. Attingendo principalmente al pensiero di san Gregorio di Nissa, in particolare al suo De Instituto Christiano, le prime mostrano la capacità divulgativa di Macario, piuttosto che una vera originalità di pensiero, e rendono fruibili le complesse teorie mistiche e spirituali di Gregorio anche a un pubblico meno colto. Macario aggiunse anche direttive più precise sul modo di organizzare una comunità monastica o eremitica, che doveva essere basata sul mutuo soccorso e sul lavoro manuale, che non poteva venire sottovalutato, essendo necessario al sostegno della comunità, per permettere ad altri di continuare a condurre una vita di preghiera. Egli deduce il concetto di necessità e dignità del lavoro dalla meditazione sull’episodio evangelico di Marta e Maria, passando direttamente al significato del gesto di Cristo che lava i piedi ai discepoli, come dimostrazione della preminenza del lavoro quale canale di servizio agli altri. Macario è tutto intento a dimostrare che gli alti ideali del monachesimo possono essere raggiunti a patto che si abbia una fede fondata sulla Scrittura e che ci si ponga generosamente l’obiettivo di mettere in pratica ciò che le Scritture stesse propongono, confidando nell’opera divina piuttosto che nelle proprie forze. Sono poche le notizie affidabili sui sessant’anni di permanenza a Scete; si dice che fosse discepolo di sant’Antonio abate: in effetti uno dei discepoli a cui Antonio chiese di seppellirlo si chiamava proprio Macario. Si potrebbe quindi trattare proprio del nostro Macario, che probabilmente rese spesso visita al grande patriarca, il cui rifugio era a quindici giorni di viaggio da Scete. Nel 373 venne esiliato da Lucio (vescovo ariano di Alessandria) in un’isola del Nilo: qui creò un terzo gruppo di discepoli tra i quali Zaccaria e Teodoro di Ferme. Nel 388 visitò Nitria e due anni dopo nel 390 morì a Scete.
19 gennaio: santi Mario, Marta, Audiface e Abaco, le notizie su Mario e famiglia, sono pochissime e incerte, derivano dalla “Passio di san Valentino” del IV secolo. La tradizione vuole che la coppia, Mario e sua moglie Marta, di nobili natali, nel 270 fosse giunta a Roma dalla Persia insieme ai due figli Audiface ed Abaco, studi più recenti dimostrerebbero che i quattro non erano persiani, ma cristiani abitanti nella villa imperiale di Lorium, un’azienda agricola di proprietà degli imperatori romani che sorgeva lungo la via Cornelia, per venerare le reliquie dei martiri. Il secolo III fu un periodo di grande espansione del cristianesimo e di tolleranza nei loro confronti, almeno fino alla vecchiaia di Diocleziano, quando nel 293, spinto dal console Galerio, emanò tre editti di persecuzione. A Roma, Mario e famiglia, aiutati dal prete Giovanni, si diedero a seppellire, lungo la via Salaria, i corpi di oltre 260 martiri che giacevano, decapitati e senza sepoltura, in aperta campagna. Scoperti, furono arrestati e portati in tribunale, dove vennero interrogati dal prefetto Flaviano e dal governatore Marciano. La famiglia si rifiutò di abiurare la fede cristiana e di sacrificare agli idoli, cosicché furono tutti condannati a morte: gli uomini furono giustiziati lungo la via Cornelia; Marta, “in nympha”, cioè presso uno stagno poco distante. Si riporta che una matrona romana, Felicita, diede loro sepoltura in un suo possedimento, lungo la stessa via, al tredicesimo miglio. Qui sorse una chiesa di cui esistono tuttora i ruderi e che fu meta di pellegrinaggi nel medioevo. Oggi è detta tenuta Boccea (“Buxus” all’epoca). Le loro reliquie ebbero vicende molto complesse: alcune furono traslate a Roma nelle chiese di Sant’Adriano e di Santa Prassede. Un’altra parte di esse fu inviata ad Eginardo nell’828; questi, biografo di Carlo Magno, le donò al monastero di Seligenstadt.