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a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 2 dicembre la chiesa celebra sant’Abacùc profeta, di questo profeta sappiamo poco a suo riguardo, probabilmente visse durante il VII secolo a.C. È autore di una profezia presente nella Bibbia: il Libro di Abacùc costituito di 56 versetti, suddivisi in tre capitoli. Nell’opera il profeta affronta vari temi, trattando della giustizia divina e della fedeltà all’alleanza, che conduce alla salvezza ed alla manifestazione di Dio. L’epoca in cui vive e opera Abacùc è probabilmente quella che precede la caduta di Gerusalemme e l’esilio. Egli, infatti, parla di un popolo, i Caldei, che Dio ha scelto per servirsene nella punizione del regno di Giuda e della sua capitale. Con il termine “Caldei” il profeta intende i Babilonesi, i quali, vinti
gli Assiri, sono diventati la potenza dominante. Essi, infatti, dopo diversi successi militari tra il 610 e il 600 a.C., nell’anno 586 conquistano Gerusalemme, conducendone esuli gli abitanti a Babilonia. Il libro descrive la violenza di questo popolo, che diventa il soggetto dei cinque «guai» racchiusi nel capitolo 2. Con questa espressione minacciosa, nella Bibbia, ma anche nei vangeli, si vuole sottolineare l’intervento di Dio nella storia contro chi nuoce i diritti degli altri, contro il ricco che calpesta il povero e contro il popolo più forte (come i Caldei) che non esita a tiranneggiare e ad assoggettare il più debole (come Israele). Ma il tema che rende più vicino a noi questo libretto è la riflessione del profeta che, in dialogo con Dio, chiede il perché del prevalere del peccatore e della sofferenza del giusto: «Perché tu, Dio dagli occhi così puri, che non vuoi vedere il male e non puoi guardare l’iniquità, vedendo i malvagi, taci, mentre l’empio ingoia il giusto?». La risposta è nella parola “fedeltà”: «Il giusto vivrà per la sua fedeltà». Nella Bibbia questo termine esprime la sapienza, la solidità, la stabilità, la certezza di Dio e del suo operare. Il credente («il giusto») che affida e appoggia tutto se stesso a Dio, non può non vivere, non può cadere, non può dubitare di Dio, della sua presenza e della sua guida della storia e delle vicende umane. Il cristiano che vive di questa “fede” è testimone della bontà di Dio e porta a compimento l’atteggiamento del “giusto”, che Abacuc presentava ai suoi contemporanei come modello di comportamento tra le vicende dolorose e incomprensibili della storia personale dell’uomo e delle vicende negative e dolorose del suo mondo. Abacùc liberato da Ciro II di Persia si spostò presso Ecbatana, in quella zona morì e fu sepolto in quella che oggi è Tuyserkn nella regione di Hamadan (in Iran).
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2 dicembre: santa Bibiana (o Viviana), nacque a Roma nel 347. Vissuta probabilmente al tempo di Giuliano l’Apostata, vide da questo imperatore perseguitati a morte i suoi genitori: il padre Flaviano, Prefetto di Roma (carica corrispondente a quella odierna di sindaco), cristiano fervente, venne destituito ed al suo posto venne nominato il pagano Aproniano. A Flaviano non dispiacque ritirarsi ad una serena vita privata e si dedicò con solerte premura all’assistenza dei bisognosi e perseguitati, provvedendo alla sepoltura dei martiri. Questo apostolato, di cristiana carità, giunse all’orecchio di Aproniano, che fece chiamare Flaviano e, dall’aperta professione di fede del nobile cavaliere, trasse motivo di condanna. Inviatolo in esilio alle Acque Taurine, nei pressi dell’odierna Montefiascone, gli fece imprimere sulla fronte il marchio di schiavo ed i carnefici lo fecero con tanta violenza da provocarne la morte, avvenuta nella serenità, dopo tre giorni di agonia, il 22dicembre 361; la madre Dafrosa fu chiusa in carcere e dopo un ennesimo rifiuto a sacrificare agli dei, venne decapitata il 6 gennaio del 362. Non passò molto tempo che la stessa fine toccò anche alla sorella Demetria, che condannata al carcere duro, morì di stenti e sopraffatta dall’ansia. Bibiana, risparmiata per la giovane età, sopravvisse, ma non volendo rinnegare la sua fede, fu affidata al governatore Aproniano che decise di sopprimerla per impadronirsi del consistente patrimonio della famiglia, spettante secondo la legge a chi riceveva danno da uno che esercitasse magia o male arti. Aproniano infatti era ancor più invelenito nella persecuzione per il fatto che aveva perduto un occhio ed era convinto che ciò fosse dovuto ai malefici dei cristiani. Riservò quindi a Bibiana, un trattamento particolarmente crudele. Viste vane tutte le minacce per farla rinnegare la sua fede, la consegnò a una disonesta mezzana, di nome Rufina esperta di intrighi amorosi, perché l’avviasse sulla strada del vizio, ma la fanciulla uscì indenne da ogni tentazione e da ogni luogo di perdizione dove la condusse la sua aguzzina. Aproniano tornò allora alle minacce e alle torture, ma sempre inutilmente. Allora dette ordine che fosse flagellata, con le terribili corde piombate romane, fino alla morte. Legata a una colonna, Bibiana subì le percosse per ben quattro giorni, in capo ai quali morì. Il suo corpo, ormai sfigurato, per maggiore infamia non venne sepolto, ma gettato in una discarica dove andavano a cibarsi cani e animali randagi. Ma fu proprio un cane che segnalò a un pio prete, di nome Giovanni, la presenza delle spoglie della martire. Queste vennero raccolte e collocate presso la tomba della madre e della sorella nel palazzo del padre, allora affidato ad Olimpia, una matrona romana, parente di Flaviano. Morì il 2 dicembre 362, a 15 anni; patrona di Siviglia e invocata contro i mal di testa e l’epilessia.