a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 29 novembre la chiesa celebra san Saturnino di Tolosa, il nome è africano e, sebbene non si abbiano molte informazioni su di lui, prima della sua nomina a vescovo, è venerato come missionario e come primo vescovo di Tolosa. Sembra che abbia predicato su entrambi i versanti dei Pirenei, convertendo, secondo Venanzio Fortunato, molti pagani. San Sidonio Apollinare gli rende merito, e san Gregorio di Tours lo cita più di una volta, dimostrando chiaramente di conoscerne la Passio Saturnini. Secondo l’autore della passio, scritta prima del VII secolo. Saturnino chiamava a raccolta i suoi fedeli in una piccola chiesa di Tolosa, separata da casa sua dal tempio principale della città, dove il popolo si recava per consultare gli oracoli; quando questi ultimi non si pronunciarono per un certo periodo, il loro silenzio fu attribuito alla presenza del vescovo cristiano. Così un giorno, mentre Saturnino stava passando dinnanzi al tempio di Giove Capitolino, dove venivano sacrificati tori alla divinità, i responsi degli aruspici risultavano incomprensibili, allora fu catturato dai sacerdoti che lo trascinarono dentro e gli ordinarono di compiere un sacrificio agli dèi offesi, altrimenti sarebbe stato sacrificato. Saturnino, rispose: «Io adoro solo un Dio e solo a Lui sono pronto a offrire un sacrificio di lode. I vostri dèi sono malvagi e preferiscono il sacrificio delle vostre anime piuttosto che dei vostri vitelli. Come posso temerli, dato che asserite che tremano davanti a un cristiano?». Infuriati dalle sue parole, dopo il suo rifiuto di sacrificare a Giove, sarebbe così stato legato al collo di un toro che, reso inferocito da pungoli vari, fuggì straziando le membra del povero vescovo cristiano. Quando la corda si ruppe, i resti, lasciati fuori delle porte della città, furono raccolti da due uomini e seppelliti in una fossa; in seguito, i suoi resti furono ritrovati nel VI secolo dal duca Leunebaldo che fece erigere sul luogo una chiesa a lui dedicata, Saint Sernin-du-Taur; protettore delle corride.
29 novembre: san Francesco Antonio Fasani (al secolo Donato Antonio Giovanni Nicolò Fasani), nacque a Lucera (Foggia) il 6 agosto 1681, da una famiglia povera, ma dedita alla preghiera, dove si recitava il rosario in ginocchio dinanzi all’immagine dell’Immacolata Concezione. Quando Giovanniello, così era chiamato, ancora piccolo, il padre morì e sua madre passò a terze nozze. I coniugi gli diedero un fratello e una sorella e, di comune accordo, vollero mantenere il bambino agli studi, permettendogli di frequentare il convento di San Francesco. Giovanniello studiava con grande impegno ma, pur sapendo che avrebbe deluso le aspettative dei familiari, non nascose la sua predilezione verso la vita conventuale. Ancora adolescente, il 23 agosto 1695 entrò al noviziato dei Frati Minori Conventuali di Monte Sant’Angelo, prese il nome di Francesco Antonio, come atto devozionale ai due grandi santi dell’ordine, e il 23 agosto 1696 vi emise la professione solenne con i voti di povertà, castità, obbedienza. Lasciò Monte Sant’Angelo e, per una notte, tornò nella sua casa, a Lucera, prima di partire per Venafro. Francesco Antonio, dopo gli studi a Venafro, passò ad Alvito, a Montella, ad Aversa per filosofia, ad Agnone per teologia ed infine a Napoli. Fu durante questi viaggi che, ad Isernia nel 1696, incontrò per la prima volta il novizio il beato Antonio Lucci, che ritrovò l’anno seguente nel corso di studi letterari a Venafro. Si strinse fra i due un profondo rapporto di sincera amicizia, che li portò a proseguire insieme il cammino verso il sacerdozio. Consigliato dall’amico di studi, Antonio Lucci, Francesco Antonio chiese al padre generale di essere mandato ad Assisi per laurearsi assieme al Lucci. La richiesta fu accettata e i due partirono per il lungo viaggio, che li mise di fronte alla reale situazione politica del Regno di Napoli. Lucci da sempre più aperto e speranzoso si contrapponeva a Francesco Antonio più timido e preoccupato. Fu proprio durante questi piccoli battibecchi che Francesco Antonio avrebbe risposto al Lucci: «Dì pure quello che ti pare, tanto sarò santo prima di te». I due amici arrivarono ad Assisi nel 1704 e, dopo un anno di formazione, sotto la guida del direttore spirituale il servo di Dio Giuseppe Antonio Marcheselli, furono ordinati sacerdoti il 19 settembre 1705. Passato a Roma nel collegio di San Bonaventura, ritornò ad Assisi nel 1707. Nel luglio di quello stesso anno fu destinato alla comunità di Lucera, per insegnare filosofia ai giovani del convento, mentre Antonio Lucci, dopo vari insegnamenti, nel 1718 fu eletto ministro provinciale dell’Ordine nella provincia di Monte Sant’Angelo. Arrivato a Lucera sul finire del 1707, Francesco Antonio fu subito accolto tra i Minori Conventuali del convento di Lucera, dove manifestò subito il suo ardore serafico e lo zelo apostolico, con vita di penitenza e povertà. Chiese una lista dei più poveri della città ed incitò i confratelli a fare digiuni, penitenze e rinunce. Il 27 giugno 1709 Francesco Antonio sostenne l’esame in sacra teologia e venne proclamato “dottore e maestro”. Dal 1709, per tre anni, si ritirò per un periodo di solitudine presso Alberona, dove fu superiore nell’eremo di San Rocco. Qui, oltre ad essere occupato nel sacro ministero, provvedeva anche alla scuola dei ragazzi del popolo. Fu costretto a lasciare l’eremo nel 1712, quando fu nominato guardiano e maestro dei novizi, e successivamente superiore del convento di Lucera, dove istituì una mensa per i poveri, chiedendo frequentemente offerte alle famiglie nobile. Nel 1716 fu trasferito al convento di Troia e nel 1717 fu rimandato a Lucera. Il suo apostolato a Lucera si divideva fra i poveri della città, l’assistenza ai carcerati e ai condannati a morte che accompagnava personalmente fino al luogo del supplizio per confortarne gli estremi momenti. Il 1 giugno 1720, con speciale Breve di Clemente XI, Francesco Antonio venne nominato Ministro Provinciale della provincia religiosa conventuale di Monte Sant’Angelo, che in quel tempo si estendeva dalla Capitanata al Molise, succedendo all’amico Antonio Lucci che nel 1729 fu nominato vescovo di Bovino. Nuovamente guardiano del convento, nel maggio 1742, a 35 anni dal suo ritorno a Lucera, si congedò dai padri della provincia, invitandoli a pregare per la sua anima. Il 22 novembre, chiamato ad assistere un moribondo, incurante del freddo e del vento, tornò al convento con la febbre. Il giorno seguente, dopo aver confessato per alcune ore, barcollando, crollò. Morì il 29 novembre 1742, a 61 anni
29 novembre: Serva di Dio Dorothy Day, nacque a Brooklyn (Stati Uniti) l’8 novembre 1897, venne battezzata nella Chiesa Episcopale. Dorothy si trasferì con la famiglia a San Francisco, ma il sisma del 1908 lascia il padre John disoccupato e si trasferirono a Chicago, in un umile appartamento. Quando John fu nominato redattore sportivo di un giornale di Chicago, la famiglia Day si trasferì in una più comoda casa nella parte nord della città. Qui Dorothy ha cominciato a leggere i libri che smossero la sua coscienza. Il romanzo di Upton Sinclair, La Giungla, ispirò la Day a fare lunghe passeggiate nelle povere contrade della parte sud di Chicago. Era l’inizio di una lunga vita di attrazione per le zone che molta gente evita, qui inizia la sua vocazione verso i poveri. Una vita travagliata sostanzialmente divisa in due: studi al College di Urbana (Illinois), reporter a New York. Nel novembre del 1917 Dorothy andò in prigione per essere stata una delle quaranta donne che avevano protestato di fronte alla Casa Bianca per l’esclusione delle donne dal voto. Arrivate in una casa di lavoro rurale le donne furono trattate brutalmente ed esse risposero con uno sciopero della fame. Alla fine furono liberate con un ordine presidenziale. Ritornando a New York ritenne che il giornalismo fosse una magra risposta ad un mondo in guerra. E così, nella primavera del 1918, firmò per aderire ad un programma di formazione infermieristico a Brooklyn. Ha vissuto diversi amori, un aborto volontario, la relazione stabile con Forrest Batterham, botanico inglese, anarchico e contrario al matrimonio; nel 1927 la nascita di una figlia, Tamar, e la decisione di battezzarla, scelta che porrà termine alla relazione con Batterham. Inizia un lento cammino di conversione alla Chiesa cattolica, da lei vista come la “chiesa dei poveri”, ma resta costantemente dibattuta tra scelta religiosa e valori sociali, come le marce a fianco dei comunisti per chiedere i sussidi di disoccupazione, le cure sanitarie, l’assistenza materno-infantile. Nel 1932 l’incontro con Peter Maurin, un immigrato francese con il quale fonda un giornale, il Catholic Worker, (venduto ad 1 penny la copia “così ciascuno può permettersi di comprarlo”) che diventa il centro d’azione di un movimento cattolico sociale con la fondazione di diverse case di accoglienza per senzatetto e anche comunità agricole in stile cooperativo. Partecipa lei stessa a numerose manifestazioni in difesa degli agricoltori, come in California a fianco di Cesar Chavez, per lo “sciopero dell’uva”. Gli articoli sul giornale sono di stampo pacifista: si parla di crociate e di papi in guerra, ma anche di san Francesco d’Assisi e della necessità per i cristiani del XX secolo di scelte di pace. Nel 1963 è a Roma con migliaia di donne a manifestare il suo grazie a Giovanni XXIII per l’enciclica “Pacem in terris”. Insieme alla sua missione per i poveri, Dorothy sente che sua missione è anche scrivere e vivere un’intensa vita intellettuale: tiene un diario e collabora al suo giornale sino all’ultimo. Senza dubbio è stata una donna del nostro tempo, da lei vissuto con inquietudine, una donna nuova, che osava dire: «Non chiamatemi santa non voglio essere archiviata così facilmente: se ho ottenuto qualcosa nel corso della mia vita, è perché non ho esitato a parlare di Dio e della sua volontà», con queste parole Dorothy Day, negli ultimi giorni della sua vita, liquidava chi parlava di lei in modo troppo agiografico. Il suo pellegrinaggio terreno si è concluso a Maryhouse a New York City dove mancò tra i poveri. Morì il 29 novembre 1980.